
Il complotto contro l’America – Tutorial per una dittatura
Charles Lindbergh non è esattamente il primo personaggio che venga in mente per una figura di leader politico razzista e minaccioso. Per come è arrivata a noi, la sua immagine è quella di un uomo coraggioso e romantico, il primo a trasvolare l’Atlantico in solitaria nel 1927, un pioniere del positivismo tecnologico novecentesco, il primo “Uomo dell’anno” di TIME, l’aviatore che un poeta progressista come Ivano Fossati ha cantato come «un pesce con le ali volato via dal mare per annusare le stelle».
Eppure, quando ad affrontarlo è uno dei più grandi romanzieri statunitensi (e fervente appassionato di storia) come Philip Roth, si può finire per rendersi conto che Lindbergh sia forse più di Cristoforo Colombo un candidato eccellente alla damnatio memoriae della cancel culture, nonché un ottimo spunto per un romanzo di fantapolitica. Infatti, per quanto sia poco noto, è storicamente dimostrato che l’eroe dell’aria fu anche un antisemita con simpatie hitleriane, e negli anni Trenta e Quaranta “Lindy” fu politicamente attivo contro Roosevelt, tanto che ci fu addirittura chi pensò di candidarlo a Presidente degli Stati Uniti. Cosa sarebbe successo se questo fosse avvenuto, e se fosse stato eletto?
Parte da queste domande Il complotto contro l’America di Philip Roth, pubblicato come romanzo nel 2004, e dal 24 luglio in onda come miniserie in sei episodi su Sky Atlantic con la firma di David Simon e Ed Burns (entrambi già dietro The Wire) dopo il lancio a marzo scorso su HBO.
L’America immaginata come filonazista non è un argomento particolarmente originale: le ucronie di questo tipo hanno già visto un adattamento televisivo recente in The Man in the High Castle (da La svastica sul sole di Philip K. Dick), e questo specifico genere di narrativa è talmente vasto che merita una pagina di Wikipedia nonché un premio letterario annuale.
Bisogna dire che, purtroppo, Il complotto contro l’America non rientra tra le migliori, ma forse non è nemmeno colpa degli adattatori, che hanno fatto un lavoro egregio nel trasporre fedelmente il romanzo di Roth. Il problema sta nel fatto che, nel libro come nella serie, mancano sia l’afflato da blockbuster storico con eroi e nemesi, sia quell’attitudine grottesca e trasgressiva che Roth di solito ha alle prese con materie più private e casalinghe.
La storia segue da vicino la famiglia ebraica dei Levin, genitori e due bambini, cittadini qualunque del New Jersey che, così come successe davvero a molti europei, si trovano giorno dopo giorno a captare i disturbanti segnali di una democrazia che scivola sempre più verso la tirannide. Con l’aggravante, poi, di avere in famiglia due cognati (la power couple Winona Ryder e John Turturro, gigioni ma indubbiamente carismatici) che, accecati dalla promessa dell’inclusione, tradiscono la loro identità ebraica sostenendo un governo antisemita.
Secondo Turturro, il personaggio dell’ambiguo rabbino che interpreta nella serie sarebbe addirittura ispirato a Chaim Rumkowski, presidente del consiglio ebraico nel ghetto di Lodz ritratto da Primo Levi ne I sommersi e i salvati, e il suo mellifluo predicare a favore di Lindbergh è un disturbante esempio di come si manifesti quella “zona grigia” tra complicità e sopravvivenza.
In fondo, la materia è tutt’altro che superata: ora come allora si parla di “America First”, ora come allora è attuale la questione di un presidente-celebrità populista e accusato di essere razzista e amico dei dittatori, e la serie sembra ammonire l’America contemporanea così come il libro sembrava fare con la nazione che stava per rieleggere George W. Bush.
Purtroppo, le buone intenzioni non fanno sempre buona letteratura o buona televisione, e Il complotto contro l’America sembra dimostrarlo: dagli attori alle scenografie, dalla ricostruzione storica, alla sensazione di pericolo incombente, tutto è senza macchia, ma una trama esile e risolta sbrigativamente che sulla pagina era salvata dalla penna di Roth, qui arranca per sei episodi senza alcun cliffhanger o personaggio davvero memorabile.
Il tutto assomiglia più a una serie a presa lunga come Mad Men: un ritratto d’epoca più che una narrazione incalzante, una trama fluida in cui trovano spazio anche digressioni da romanzo più che da miniserie, volte a dare forma meno bidimensionale a personaggi che però non trovano una vera risoluzione. Rimane lo sforzo eticamente incontestabile di dipingere l’orrore di una nazione che lentamente si rivolta contro le sue stesse minoranze, e la capacità di far riflettere su ciò che, dati storici alla mano, ha rischiato davvero di realizzarsi. Ma la morale senza arte raramente produce arte memorabile.
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