
PJ Harvey – A Dog Called Money
PJ Harvey – A dog called Money, diretto da Seamus Murphy e distribuito da Wanted Cinema inaugurando in questi mesi la sala virtuale Wanted Zone, è un coro polifonico, un rimbalzo di mondi, una eco incidente di memorie, storie, suggestioni e suoni che ci arrivano con una frequenza di rimando che è un boato. Il secondo frutto della collaborazione tra Murphy e PJ Harvey, che già avevano lavorato insieme per l’album Let England Shake (2011) della pluripremiata musicista britannica per cui Murphy girò dodici cortometraggi (uno per ogni brano), è un viaggio non solamente attraverso spazi fisici, ma anche immaginativi, connessioni memoriali, reti sociali e comunitarie il cui risultato è un’esperienza percettiva a tutto tondo seguendo un senso di assoluta libertà e spontaneità, non mancando di prendere posizione in ambito socio-politico in una modalità mai però puramente assertiva. Il film di Murphy è fatto di ascolto e condivisione, di interrogativi e di atmosfere.
Attraversando gli spazi con vista e udito ben ricettivi, PJ Harvey segue Murphy nei suoi reportage in teatri di guerra passati e recenti: Afghanistan, Kosovo per finire passando per Washington DC interpretata simbolicamente come fulcro decisionale della società occidentale, mettendone in luce tutte le criticità e contraddizioni. Il risultato è uno sbalorditivo documentario che mischia il reportage con la performance: una volta riportato tutto a casa, nei sotterranei della Sommerset House di Londra, PJ rielabora le suggestioni raccolte in un album, The Hope Six Demolition Project (2019) registrato predisponendo uno studio aperto al pubblico. Così il processo creativo viene svelato in una performance e conservato dalla camera attenta di Seamus Murphy.
Durante i viaggi PJ Harvey si impegna a raccogliere parole e suoni, atmosfere da ricostruire, da tramandare e raccontare non solo con una valenza fortemente testimoniale, ma anche con la consapevolezza dei legami creati con le comunità e le persone incontrate. PJ Harvey, Seamus Murphy e i loro si muovono come attenti osservatori, acuti spettatori e interlocutori pronti a cogliere ogni spiraglio di calore e di realtà, a farsi avvolgere da ogni contesto e a fermare ogni dettaglio dei loro incontri. Ma il documentario non si pone mai solamente come un freddo spazio di proiezione di un altro da sé. Al contrario si rivela, fotogramma dopo fotogramma, la documentazione per evocazione del processo che passa dalla partecipazione di tutta la troupe a un’esperienza formativa, attraverso un genuino e spontaneo processo d’inseguimento del materiale d’ispirazione, fino al momento stesso della creazione (dell’album di PJ Harvey). Procedendo bruscamente per salti spaziali e temporali dalle strade allo studio, in un moto apparentemente non programmatico, il tempo e lo spazio della documentazione si mescolano con quelli della creazione. Chiusi nel sotterraneo della Sommerset House, i musicisti di PJ Harvey si lasciano cogliere dall’intuizione sonora, aperti alla sperimentazione e all’improvvisazione per arrivare a costruire un album che raccolga tutte le storie conservandone la potenza insieme umana, poetica e politica, insieme alla forza allusiva di evocare i musicisti ora Afghani, ora i canti tradizionali balcanici, ora la spontaneità e durezza dei ragazzi che abitano i quartieri popolari sud-occidentali a maggioranza nera di Whashington DC.
Una certa attenzione all’evento minimo, al dettaglio, alla forza delle piccole cose che aspirano all’evocazione di una universalità si rivela immediatamente dal titolo scelto per il film: un cane chiamato “Denaro”. Si tratta effettivamente del nome del cane di un ragazzino afroamericano incontrato dalla troupe nei quartieri di Washington DC. La scelta di un simile titolo eleva indiscutibilmente il tema sociale a protagonista dell’opera e il cane effettivo di questo ragazzino è eletto a perfetta allegoria del principio primo di un mondo, quello occidentale, che baserebbe la felicità e la realizzazione personale sull’accumulo di denaro. In questo senso a Murphy e PJ Harvey si offre la perfetta occasione per creare un titolo dalla forte valenza critica nei confronti della società occidentale, contrapposta alla semplicità e spontaneità delle comunità più ai margini che fanno dei legami umani la propria fonte di ricchezza, il tutto senza retorica, ma piuttosto con un approccio basato sul dire poco o nulla, soltanto attraverso le immagini e le situazioni vissute.
Quello che si rileva, in conclusione, dalla visione del film è un’esperienza d’incontri umani e artistici, la documentazione di un processo creativo, l’importanza della contaminazione tra codici diversi e la volontà di utilizzare l’arte per descrivere e connotare la realtà che ci circonda anche essendo critici verso di essa, comprendere e apprezzare realtà che ci sono lontane, cercando di trovare anche nelle condizioni più scomode un necessario valore, ricordando sempre l’importanza dell’incontro, dello scambio e della creazione di legami.
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