
Self Made – Tra emancipazione e cliché inopportuni
Le storie di donne vanno per la maggiore, al cinema e nella serialità. Emancipazione, diritti, conquiste, tutto molto bello e molto giusto, ma questi racconti vanno costruiti con forza e decisione. Conclusa la visione di Self Made: la vita di Madam C J Walker, nuova serie Netflix in quattro episodi, ci si ritrova contrariati. Non si sa se ridere o piangere, non ci si può neanche definire divertiti, visto che la storia di colpi di scena o di gag spassose non ne possiede. Cliché che si accumulano su altri cliché nel tentativo di raccontare una storia che smuova le coscienze, e che dia speranza alle donne.
St. Louis primi del Novecento, Sarah Breedlove (Octavia Spencer) è una donna di colore, prima figlia nata libera sul suolo americano da genitori schiavi. Per racimolare il denaro sufficiente a provvedere alla sopravvivenza sua e della figlia Lelia (Tiffany Haddish), fa la lavandaia. Le pessime condizioni di vita e di igiene le fanno sperimentare la perdita dei capelli e cui riesce a porre rimedio attraverso la crema per capelli di Addie Monroe (Carmen Ejogo). Sarah, convinta di poter diventare una buona venditrice di prodotti di bellezza, cacciata dalla mulatta Addie, si ingegna e sperimenta fino a giungere alla creazione di una nuova crema, primo tassello dell’impero che la donna, assumendo il nome di Madam C J Walker, sarà in grado di costruire.
Madam C J Walker è stata la prima imprenditrice statunitense, un primato reso ancora più incredibile dalla sua etnia. Una donna di colore che crea dal nulla un’attività per favorire l’emancipazione delle sue “sorelle” è un unicum nella storia e per questa ragione deve essere raccontato e tramandato alle nuove generazioni che – a guardar bene – ancora non si sono liberate dal pregiudizio e del razzismo latente in una società maschilista.
I presupposti per dar vita ad un prodotto divulgativo interessante e attuale c’erano, erano sotto agli occhi di qualunque produttore, e sono stati usati nella maniera più rozza, analfabeta e inconcludente possibile. Raccontare il sogno americano per arrivare alla vittoria del singolo è una strategia stantia, scaduta da decenni, di cui si è abusato anche brillantemente. Madam C J Walker vuole essere la voce di una fetta di popolazione a cui sono state recise le corde vocali, e finisce con l’essere il ritratto kitsch e senz’anima di una donna che si arricchisce per il suo personale desiderio di riscatto. Le quattro puntate della miniserie, nella loro insopportabile ripetitività, finiscono con l’impreziosire di banalità e retorica uno scontro vis à vis tra due donne – Sarah e Addie – che, nonostante incarnino la buona e la cattiva della situazione, non differiscono negli intenti e nelle pianificazioni di manovre sotterranee. La salvatrice della patria, la nera che “ruba ai ricchi per dare ai poveri” risulta solo essere una maschera stereotipata e posticcia, indossata da un’attrice che ha da anni esaurita la gamma delle limitate doti espressive.
Self Made nel suo prevedibile svolgimento si avvale di espedienti postmoderni che ormai sono archeologia cinematografica, e che non stanno in piedi neanche se etichettati come “vintage”. La colonna sonora contemporanea, la metafora dello scontro sul ring tra le due contendenti prime donne, regalano fugaci lampi di dinamismo che scivola nell’onirico fine a sé stesso. Sì, perché i ricordi di Madam, come tutto ciò che affolla la sua instancabile mente sono solo siparietti colorati, distrazioni inserite per mimetizzare l’imbarazzante inadeguatezza di una storia grigia senza spunti, anima o sprazzi di realismo.
Ci troviamo, dunque, davanti ad un’occasione sprecata, ad un pretenzioso tentativo di veicolare messaggi fondamentali con il minimo sforzo. Atmosfere melò da sceneggiato delle due del pomeriggio e uno script lacunoso e frammentario, generano un buco nell’acqua clamoroso che fa rimpiangere il trash esuberante e vaporoso di certe serie young-adult – una su tutte Élite – che nella loro povertà di contenuti sanno essere più autentiche e coinvolgenti.
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