
The Dawn Wall – L’elogio dell’impossibile
Il grande successo di Free Solo, documentario premiato agli Oscar 2019, ha costituito una sorta di rito iniziatico, che ha definitivamente introdotto a Hollywood la disciplina del rock climbing (letteralmente, poiché prima della cerimonia il protagonista Alex Honnold arrampicò sulla celeberrima scritta).
Ma quello di Free Solo non è affatto un caso isolato. Distribuito su Netflix solo 10 giorni prima, forse ottenebrato dalla risonanza mediatica dell’impresa sovrumana di Honnold, The Dawn Wall rappresenta una vera lettera d’amore allo sport nonché un delicato ritratto di una vita straordinaria.
Il documentario, diretto da Josh Lowell e Peter Mortimer, racconta la vita di Tommy Caldwell, altro personaggio abitante l’olimpo dell’arrampicata libera, soffermandosi sull’impresa più dura della sua vita: arrampicare la Dawn Wall, una parete di El Capitan (l’ormai famosa montagna dello Yosemite) considerata fino ad allora inscalabile.
Per centrare la narrazione e mettere in risalto la psicologia dietro quest’impresa, il film parte dall’infanzia di Caldwell: timidezza, deficit dell’attenzione, insicurezza e fragilità. Sarà poi suo padre, definito dallo stesso Tommy <<un uomo straordinario>>, a spronarlo lavorando sulla resilienza, facendogli affrontare dure prove e situazioni pericolose fin da adolescente. Ironia della sorte, a 16 anni Tommy diventa uno dei più forti climber al mondo, nonché il più giovane. Di lì a poco però, il suo rapporto con l’estremo raggiungerà livelli inaspettati.
Nel 2000, durante una spedizione esplorativa in Kirghizistan, membri del Fronte Nazionale Uzbeko rapiscono Tommy e il resto del team (di cui faceva parte anche la sua futura moglie Beth). Dopo una settimana di prigionia il gruppo riesce a fuggire grazie all’azione repentina dello stesso Caldwell, il quale spinse uno dei rapitori giù da una scarpata. Nonostante le ricerche odierne abbiano scoperto che il rapitore sopravvisse alla caduta, il trauma per aver ucciso un uomo perseguitò il ragazzo per anni. Questo fu solo il primo di una lunga serie di eventi che andranno a minare l’emotività di Tommy, tra cui la separazione dalla compagna di una vita e l’amputazione dell’indice della mano sinistra (fondamentale nell’arrampicata estrema, assieme al pollice) a seguito di un incidente domestico.
Ed è solo a questo punto che si può comprendere il suo rapporto con la Dawn Wall: lo scalatore impiega 6 anni della sua vita a studiare una possibile via per salire l’inviolata parete di granito, per poi trascorrere 19 giorni sospeso nel vuoto assieme al noto boulderista Kevin Jorgeson (il bouldering è un tipo di arrampicata su sassi alti un paio di metri), cercando di completare il suo rebus, alla ricerca di impercettibili punti di contatto tra i singoli tiri di corda.
A questo punto il documentario diventa un viaggio antropologico, una prospettiva a volo d’aquila su quelle fragili personalità desiderose di confrontarsi con il titanismo della natura, immuni da qualsiasi interferenza del mondo esterno (si vedano le dirette tv del NY Times sull’impresa e le ondate di fans riuniti ai piedi del massiccio roccioso).
Ma il film non è solo esaltazione della volontà umana, bensì il prodotto di una grossa macchina, fatta di ricerca tecnologica e pianificazione logistica. Notevoli sono le tecniche di ripresa: nel parco dello Yosemite infatti non sono ammessi droni o elicotteri, pertanto ogni operatore avrebbe dovuto lavorare manualmente. Per avere dei grandangoli efficaci a ridosso della parete è stato progettato un sistema triangolare di corde e carrucole, in modo da poter gestire le inquadrature anche a diversi metri dalla parete, sospesi nel vuoto. Inoltre, la produzione ha fatto uso di dozzine di videocamere diverse, frutto dell’evoluzione tecnologica parallela ai 6 anni di riprese.
Non serve essere appassionati di questo sport per poter apprezzare un’impresa di tali dimensioni: la crescita, il coraggio e la volontà ferrea del protagonista rendono la pellicola un ibrido tra l’action movie e il biopic più intimo, adatto a coloro che amano immedesimarsi nei grandi sognatori.
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista