
Buñuel e il cinema messicano | Buñuel 120
Luis Buñuel è stato un registra controverso, tanto amato quanto criticato, uno spirito errante sia fisicamente che artisticamente. Ha saputo spaziare e dare voce ai più disparati personaggi, mettendo in luce le criticità della società di cui son figli, senza mai rinnegare quelli che sono stati i valori cardine del surrealismo da cui proveniva. Con la guerra civile e la sconfitta della Repubblica spagnola del 1939, Buñuel è costretto ad emigrare: prima negli Stati Uniti, paese che deve lasciare a causa del suo dichiarato ateismo, poi in Messico dove si stabilisce e dà una drastica virata alla sua produzione cinematografica.

Si dedica – come già aveva fatto nel 1932 in Spagna con il documentario Terra senza pane – alla denuncia di quelle che sono le condizioni di vita della popolazione messicana meno abbiente. Realizza dunque film come I figli della violenza (1950), che vede protagonista un gruppo di ragazzini che vive per strada. Bambini e adolescenti che, invece di cercare un lavoro che possa aiutare le rispettive famiglie, cedono al fascino brutale della violenza che li porta a compromettersi, negando ad ognuno di loro la possibilità di un futuro dignitoso. La violenza diventa una regola di vita, quasi un’ossessione che serve all’individuo per sfogare le proprie frustrazioni e respirare per brevissimi istanti l’inebriante profumo di un’effimera e vana realizzazione.
È un discorso stratificato e complesso che Buñuel porta avanti stoicamente ed intelligentemente in altri film come Adolescenza torbida (1915): qui la protagonista è Susana, una ragazza cresciuta in riformatorio dal quale riesce a fuggire invocando l’aiuto del “dio dei disperati”; dopo aver raggiunto una fattoria isolata, grazie alla sua provocante bellezza riesce a sedurre tutti gli uomini che vi lavorano. Susana è la diretta evoluzione di Meche, la sola protagonista femminile de I figli della violenza, la prova effettiva di come la società influisca sull’indole degli uomini: una ragazza, da sempre apprezzata solo per la sua bellezza, che è stata vittima di diversi tentativi di stupro, si piega al volere dell’uomo che la desidera, e, quando usa l’astuzia, sfrutta le sue qualità per non soccombere; tenta la fortuna a colpi di provocazioni che acquistano sempre maggiore carica erotica.
I giovani ai margini che affollano le prime pellicole messicane di Buñuel hanno fortemente influenzato la cinematografia contemporanea. Con le dovute proporzioni, e con la repentina evoluzione della società, non è difficile creare parallelismi con i giovani violenti dei film di Iñarritu – Amores Perros – o nel loro legame servile verso la classe borghese dominante, con i protagonisti di Cuarón – Roma.

Ossessione e desiderio restano due temi, oltre che fortemente surrealisti, centrali nella filmografia di Luis Buñuel: sono la chiave di lettura di un film tossico e torbido come Lui (1953). Francisco, un ricco possidente molto devoto, rimane folgorato da una donna incontrata in chiesa durante il rito della lavanda dei piedi. Sono stati proprio i piedi di Gloria a generare l’interesse. Francisco, ossessionato da questo candido oggetto del desiderio, non perde tempo e conquista Gloria, sottraendola al fidanzato che per altro era suo amico. Quando la coppia, dopo essersi sposata, si trova a dover affrontare la quotidianità, in Francisco cresce una morbosa gelosia – anche violenta – verso la moglie, che manifesta solamente in privato. Buñuel mette in scena, forse per la prima volta con così tanta limpidezza, la brutalità interiorizzata dell’individuo, calcando la mano sulla dissonanza che si crea tra ciò che si è e ciò che si appare. L’uomo religioso, devoto, immacolato, follemente innamorato, non è altro che un ossessivo, paranoico, instabile mostro deviato che merita solamente di essere internato.

Non è tutto oro quel che luccica, men che mai lo è la vera indole di quella borghesia che si fa bella portando sul viso una maschera che non coincide con la sua effettiva conformazione. Il messaggio che Buñuel vuole veicolare si delinea sempre più nitidamente nel corso degli anni Cinquanta e viene, finalmente, messo in scena con un atto eclatante nel 1962 con L’angelo sterminatore. Un perfetto connubio tra surrealismo e critica feroce: un gruppo di borghesi riunito ad una festa non riesce ad abbandonare l’abitazione che li ospita. È la più surreale delle vicende, dalle dinamiche grottesche, a mettere in luce i paradossi, le contraddizioni e le assurdità della classe borghese. L’essere umano è paralizzato, imprigionato nelle proprie convinzioni, e non volendosi discostare da esse non riesce neppure a comprendere quale possa essere la causa della situazione in cui vive. Il riaffiorare dei bisogni primari sembra portare l’uomo a rivalutare le sue priorità, ma è solo una falsa speranza, non appena passato il pericolo, la storia è destinata a ripetersi.
Il percorso di produzione cinematografica in Messico, lungo vent’anni, porta Buñuel ad una maturità e ad una consapevolezza raggelanti nella loro atroce fermezza. Sono certezze che il cineasta non poteva avere nel suo periodo parigino, nella fase puramente surrealista. Non a caso Woody Allen, nel suo Midnight in Paris delinea un Buñuel ancora inconsapevole, un regista che, messo davanti al contenuto de L’angelo sterminatore, continua a chiedersi: “Perché non riescono a uscire?”. I perché e le risposte arrivano con gli anni e le esperienze, con le cadute dopo cui ci si rialza, con i percorsi tortuosi per le strade polverose di un Messico da raccontare.
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