
Buñuel e la polemica anticlericale – Nazarín e Simon del deserto | Buñuel 120
Un certo filosofo – uno dei grandi travisati della Storia – attorno al 1888 scriveva: «È falso sino all’assurdo vedere in una “fede”, per esempio nella fede della redenzione per mezzo di Cristo, il segno distintivo del cristiano: soltanto la pratica cristiana, una vita come la visse colui che morì sulla croce, soltanto questo è cristiano».[1] Buñuel, nella sua arte dissacratoria e iconoclasta, sembra aver compreso a pieno titolo cosa significherebbe essere cristiani con la messa in scena dei suoi personaggi ad imitatio Christi. Sebbene fosse ateo, a “infastidire” Buñuel non è, difatti, l’idea stessa dell’esistenza di Dio, quanto piuttosto la questione della fede, che all’interno dei suoi film sfocia in un caustico sentimento anticlericale che attacca i dogmi secolari della Chiesa.
Rifacendoci al periodo messicano dell’autore, due sono le pellicole rilevanti in merito: Nazarín (1958) e Intolleranza: Simon del deserto (1964). Quel che il regista pare suggerire è la futilità della mortificazione religiosa e l’impossibilità di conciliare con la realtà una pratica cristiana presa alla lettera – la difficile impresa di essere veri cristiani, avrebbe detto Kierkegaard, che al contrario aveva una spiccata religiosità.
La sconsacrazione dell’iconografia cattolica tramite cui viene veicolato questo pensiero si ritrova anche in altre opere, tra cui Viridiana (1961): impossibile non pensare alla sequenza del banchetto a imitazione dell’Ultima Cena.

L’utilità della vita ascetica che conduce Simon – il quale vive su una colonna nel deserto come Simeone Stilita, per lo più digiunando – viene messa in dubbio a più riprese. La pellicola, permeata di simbolismo e dal piglio sarcastico, si compone di quadri che illustrano la vacuità di un’esistenza fin troppo morigerata.
Simon (Claudio Brook), difatti, rinnega ogni aspetto del suo essere uomo. Mortifica il corpo per elevare lo spirito, e tenta di sfuggire alle tentazioni del demonio (Silvia Pinal) che assume varie sembianze per indurlo in inganno. Compie miracoli, ma è lontano dagli uomini – tanto metaforicamente quanto fisicamente – poiché proteso verso l’Alto.
«È la vita, ubriacone, devi sopportarla! Devi sopportarla fino in fondo!»: con questo monito da parte del demonio si conclude il mediometraggio – non più nel Medioevo ma negli anni Sessanta – nel mezzo di una caotica festa newyorkese. La frase pone l’accento sulla diatriba tra ascetismo e partecipazione attiva alla società. A tal proposito, vi è un’ulteriore fondamentale sequenza nella quale un frate, di fronte alla mancata comprensione della proprietà privata da parte di Simon, rivolge all’asceta codeste parole: «Il tuo disinteresse è ammirevole e assai benefico per la tua anima. Ma ho paura che, come la tua penitenza, non serva a molto per gli uomini».

Fin dal nome, Padre Nazario (Francisco Rabal) si configura come un alter Christus. “Povero tra i poveri” e donchisciottesco, il giovane sacerdote fa del messaggio evangelico la sua scelta di vita. Difatti, il simbolismo – cifra stilistica del regista – si riversa nella trasposizione di diversi episodi del Vangelo nella vicenda di Nazario.
Dalla messa in scena traspare quanto la visione istituzionale e dottrinale del cristianesimo collida con l’utopica eversività della lezione di Cristo: Nazario si trova ad essere spesso frainteso, ad esempio nel rapporto che intrattiene con Beatrice (Marga Lopez) e Andara (Rita Macedo). Sottintesa è anche una critica alla società borghese. Contestualmente, è presente una riflessione sulla confusione tra religione e superstizione popolare, la quale porta ad una sorta di idolatria nei confronti di Padre Nazario, creduto capace di miracoli – sebbene egli “rifiuti il ruolo” sottolineando come solo “Dio e Scienza” possano guarire dalle malattie.
«A che serve la vostra vita? Io sono dalla parte cattiva, voi dalla buona, ma non serviamo a niente nessuno dei due»: ritorna, nel confronto di Nazario con uomo imprigionato assieme a lui (che potrebbe rassomigliare a uno dei ladroni crocifissi con Cristo), la sfiducia di Buñuel nei confronti di una vita all’insegna dei valori evangelici.
Sul finale, l’ananas elargito al sacerdote da una donna è variamente interpretabile: forse un gesto di umana solidarietà, come quello di Maria Maddalena; d’altra parte, però, l’ananas non è un frutto facile da mangiare. Potrebbe allora essere una trasfigurazione della mela della Genesi, atta a simboleggiare l’ingresso di Padre Nazario in un mondo disilluso.
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[1] F. Nietzsche, L’Anticristo, Milano, Adelphi, 1977, p.33
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