
Alla mia piccola Sama – Speranza persistente oltre la guerra
Stesa e chiusa tra strati di coperte e con appena qualche settimana di vita alle spalle, mentre sonnecchia, la piccola Sama volge un sorriso alla mamma che la chiama ripetutamente. La dolcezza intima del momento rompe per un attimo la continuità dei bombardamenti entro cui è inserita, smantellandone in pochi secondi il tono funereo per sostituire a esso un’immagine sgranata e prosaica, affatto virtuosa nella sua configurazione estetica, eppure sommamente carica d’un sentimento d’amore e di speranza. Lo sguardo partecipe delle stragi siriane è stato largamente adottato lungo lo scorso decennio, con un vertice corrispondente a Still Recording (2018), premiato come Film della Critica dello scorso anno dal SNCCI. E se dunque pare che non vi potesse essere tassello parimenti o più soggettivo, la smentita si coglie con il più recente Alla mia piccola Sama, documentario candidato agli Oscar 2020 e da oggi nelle sale nostrane.

Con oltre 500 ore di footage digitale ripreso con la sua piccola videocamera nel corso di 5 anni, dal 2011 al 2016, Waad al-Kateab disponeva dunque della possibilità di guardare estesamente al conflitto e, più precisamente, all’intimità della sua vita nel conflitto, adoperandosi in un lungo processo di selezione dei materiali e di montaggio che ha visto l’affiancamento di Edward Watts, già premiato agli Emmy per Escape from ISIS (2016). Dove in Still Recording lo spettatore era trascinato in una dinamica più propriamente da guerriglia urbana, tra contatti con la milizia nemica e fughe spericolate in equilibrio con il ritaglio di momenti quotidiani ancora possibili, vissuti da innocenti che ignoravano coraggiosamente i bombardamenti, nel film di al-Kateab, della guerra ad Aleppo contro il regime non è mai mostrata neanche la parvenza di uno scontro militare praticabile, non necessariamente ad armi pari. La risposta al fuoco col fuoco non sembra fattibile. Qui, il movimento della guerra è centripeto, procede ad accerchiare, a stanare i ribelli, a stritolarli circolarmente in una morsa sempre più stretta al suono delle esplosioni. Così, dopo averci reso partecipi da subito dell’amore per il medico attivista Hamza, del loro matrimonio e della nascita della piccola Sama, l’occhio di al-Kateab dà evidenza del confinamento nello spazio ospedaliero, prima ufficiale e poi dislocato in modo improvvisato in una succursale non attestata alla localizzazione delle bombe. Ed è entro quest’ambiente che si raccoglie un vasto spettro di attitudini umane: si rende conto tanto dell’allontanamento di Hamza per versare lacrime in solitaria, quanto degli scarabocchi da questi simpaticamente disegnati sul volto di un collega; tanto dell’ostinazione d’una donna a rifiutare ogni aiuto per portare in braccio e andare a seppellire da sé il cadavere del figlio, quanto del pianto di resa affranta di chi non ha più la forza per sollevarsi dal pavimento zuppo delle scie di sangue che imbrattano i corridoi dell’ospedale.

Nel voice over di al-Kateab si restituisce il senso di queste immagini, da consegnarsi come video-lettera di giustificazione e richiesta di perdono alla figlia per aver rifiutato la fuga in nome della libertà del paese, anche a costo di rischiare la vita. Il montaggio procede a tagliuzzare e scompaginare l’attitudine evenemenziale del documentario di guerra. Per il duo registico la soluzione sta in un criterio anti-lineare, poiché assecondando la cronologia del footage digitale si sarebbe dato visibilità del suo costante sgranarsi in pixel tra le sempre più numerose detonazioni, cioè dell’inghiottimento definitivo delle speranze nella morsa del buio. Allora, è nel ripescaggio costante di memorie e immagini che si scongiura la morte della luce. Forse sarebbe anche bastato dire di no all’iper-realtà della visione documentaria delle stragi e dei corpi mutilati, nel rispetto macabro della morte e della sofferenza da intendersi come non inquadrabili. Ma il Cinema può pure esorcizzare i demoni nell’accostamento e nella sovrimpressione di altre immagini, appunto. E, da qui, l’afflato auratico della speranza séguita nei tuffi dei bambini in una piscina scavata tra le macerie degli edifici, nelle tinte colorate che disegnano l’amore per la vita sullo scheletro carbonizzato dei bus scolastici, nel massaggio cardiaco ostinato che fa sputare il pianto atteso di un neonato dato per morto.
In questo mondo, Sama ha fagocitato le roboanti esplosioni nel suo panorama sonoro e non ha motivo per piangerne, come invece fanno tutti i bambini. Al-Kateab rende tristemente conto di questo, ma continua a filmare, pure nella consapevolezza di assecondare una fine tragica (che neppure arriva), manipola la materia in nome d’una resa drammatica che faccia irrompere un più forte spirito empatico oltre lo sconcerto delle immagini. La vicinanza all’urgenza della sua testimonianza si fa impareggiata. Del resto, è lì per questo il suo primo piano con gli occhi chiari e ridenti, il suo volto trasportato dalla felicità della nevicata, col manto bianco che copre i mucchi di detriti nel cortile, mentre pronuncia il suo amore delicato per la famiglia.
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