
Creepshow – L’antologia rivoluzionaria di Romero e King | Romero 80
L’antologia di racconti è un formato che nella storia del cinema ha sempre avuto un discreto successo, soprattutto per quanto riguarda l’adattamento di opere letterarie. A sua volta, il genere horror sembra essere il medium più congeniale per la narrazione cinematografica di racconti autoconclusivi e di breve durata, che non necessitano di complicati intrecci di sfondo. Il canovaccio del film horror a episodi, spesso legati da un episodio-cornice, sembra sia stato inaugurato nel 1945 con il film inglese Dead of Night (A. Cavalcanti, C. Crichton, B. Dearden, R. Hamer). Da allora, un filo rosso ha legato pietre miliari come I tre volti della Paura di Mario Bava (1963) e I racconti del terrore (1962) di Roger Corman a pellicole più recenti come Southbound (D. Bruckner, P. Horvarth, R. Benjamin, 2016) e Scary Stories to Tell in the Dark. Nel mezzo, si può idealmente situare lo sforzo congiunto di due geni che hanno rivoluzionato l’immaginario horror del secolo scorso: George A. Romero e Stephen King. Il primo dietro la cinepresa e il secondo alle prese con la scrittura (e in parte con la recitazione) diedero vita nel 1982 a Creepshow, un’antologia unica nel suo genere.
Quest’opera ha un altissimo valore per due motivi che si intrecciano fra loro: uno di carattere tecnico, l’altro tematico. L’intento dichiarato dell’opera è quello di omaggiare i fumetti horror della EC Comics, vera e propria fucina di idee, personaggi, tòpoi del racconto dell’orrore del secondo dopoguerra. Il film si configura quindi come un elogio dell’horror d’epoca, facendosi portatore anche dei suoi aspetti più naïf e al contempo fornendogli nuova linfa creativa, in modo tale da creare una rinnovata mitologia del terrore. Romero non si accontenta, infatti, di trasformare quelle storie in sceneggiature e quelle sceneggiature in girato per le parti del suo film: decide consapevolmente di mischiare le carte in tavola, tentando di imprimere il fumetto su pellicola. In altri termini: lo spettatore vede letteralmente le pagine di un fumetto ideale prendere vita, mettersi in moto per poi tornare a essere intrappolate sul supporto cartaceo. Questo approccio transmediale è simile a quello a tecnica mista utilizzato, ad esempio, in Mary Poppins e Chi ha incastrato Roger Rabbit, ma al contempo se ne distanzia. Romero non solo lo utilizza per la prima volta in un contesto horror, ma lo fa con un intento mimetico rispetto ad una controparte cartacea che lo avvicina più alle operazioni degli anni 2000 svolte sulle graphic-novel.
Il regista americano gioca creativamente con le transizioni tra inquadrature e piani temporali, con i raccordi tra una storia e l’altra, saltando ora dal live-action al cartone animato, ora dal cartone animato all’inchiostro del fumetto, arrivando a sovrapporre in una stessa scena i diversi linguaggi. La narrazione è cadenzata da un montaggio che rende ogni singola inquadratura una vignetta ideale, ogni singola scena una tavola ideale; basti pensare alle panoramiche favolose de La morte solitaria di Jordy Verrill, l’episodio interpretato dallo stesso King. L’uso quasi caricaturale di luci dalle tinte sature e di una colonna sonora martellante è tanto un dispositivo estetico funzionale, quanto un omaggio a due giganti dell’horror all’italiana come Bava e Argento (con quest’ultimo, Romero avrebbe collaborato nel 1990 per Two Evil Eyes).
Ogni singolo episodio, pur con qualche oscillazione in termini di qualità, è accomunato dalla presenza di un’ironia cinica e amara, da un gusto per il farsesco accentuato dalla recitazione spesso sopra le righe (nel cast non mancano grandi nomi quali Ed Harris, Leslie Nielsen, Hal Holbrook) e dalla presenza di un gore meravigliosamente artigianale, a tratti davvero macabro (penso agli episodi La festa del papà e Strisciano su di te), partorito dalla mente di Tom Savini.
Creepshow cammina costantemente sul filo che separa due linguaggi visivi; un confine che sarà superato solo da Robert Rodriguez con il suo Sin City (2005), forse l’esempio più compiuto di integrazione fra cinema in presa diretta e fumetto. Il regista messicano ha potuto fare affidamento sulle tecnologie digitali e su mezzi economici di vasta portata. Romero, da regista di guerriglia quale era, abituato a lavorare con budget ristrettissimi (per Zombi ebbe solo 1,5 milioni di dollari a disposizione), ha utilizzato invece l’arma della creatività, quella che l’ha consacrato come maestro del cinema horror.
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