
Wampyr (Martin) – Cronaca di una demitizzazione | Romero 80
Mentre il cinema di genere stava ancora assimilando la lezione di un film spartiacque come La notte dei morti viventi, George A. Romero, a quasi un decennio di distanza dai suoi zombie riveduti e corretti, riservava lo stesso trattamento a un’altra creatura estremamente radicata nel nostro immaginario collettivo: il vampiro. Nasceva così, nel 1977, Martin – da noi distribuito, un anno dopo, con il titolo Wampyr, assieme a tagli opinabili e musiche aggiuntive dei Goblin. Appunto, una sorta di aggiornamento e modernizzazione di una delle figure più iconiche della storia del cinema ma anche vera e propria dissacrazione di un’intera mitologia. La laicizzazione di un personaggio privato di qualsiasi componente magica o orpello soprannaturale.
Incontrandosi con un altro immaginario nascente ma già pieno di possibilità come quello del serial killer, Romero metteva infatti in scena la storia di un giovane omicida (dal volto adolescenziale di John Amplas) che poteva essere tanto un temibile vampiro quanto un semplice uomo in preda a deliri psicotici. Sta tutta qua, in fondo, la forza di Martin, nell’ambiguità strisciante di una figura in bilico tra passato e modernità, soprannaturale e orrore quotidiano. Un personaggio scisso tra un universo di stampo classico, che lo vorrebbe prodotto di una maledizione di famiglia ancestrale, e una riscrittura moderna, dove l’assassino seriale si sostituisce al mostro succhiasangue riducendo (forse) quelle vecchie leggende a mero alibi per le sue azioni patologiche.
Confrontandosi con il passato del genere, a tratti parodiato (con tanto di mantello e denti finti) a tratti (ri)messo in scena in evocativi quanto ambigui flashback in bianco e nero (ricordi o allucinazioni?), Romero ne sfrutta infatti le logiche e i punti di forza per sovvertirlo dall’interno, fino a suggerirci che il vampirismo potrebbe essere un modo come un altro per giustificare aberrazioni del tutto umane.
Disagio psichico, perversioni sessuali, omicidi e necrofilia confluiscono così in un dramma dove l’orrore pare sempre più concreto, troppo orribile e banale per stare rinchiuso in un genere che Romero gioca a esasperare, riducendo all’osso i dialoghi e dilatando i tempi e la tensione. Martin è proprio il frutto di questa scarnificazione. Riscrittura iconoclasta di un mito ridotto all’essenziale, spoglio e minimale come il film che lo ospita. Ritratto di una provincia sbandata e ottusa (le superstizioni di nonno Cuda), senza punti di riferimento (l’improbabile prete interpretato da Romero stesso) né prospettive (la gioventù sbandata incarnata dalla leggenda degli effetti speciali Tom Savini).
È qui che Romero, liberatosi di ogni retaggio religioso o immaginario ingombrante, nasconde il suo mostro, lasciandoci faccia a faccia con una creatura banale e perfettamente immersa nella contemporaneità. Una creatura fatta della nostra stessa identica sostanza, delle nostre stesse colpe e paure, tragicamente più simile a noi che a qualsiasi altro demone sanguinario uscito dalle pagine di qualche romanzo gotico.
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