
Zana – Il richiamo della memoria | Trieste Film Festival
Dopo l’esordio al TIFF nella sezione Discovery e la rappresentanza del Kosovo agli Academy, il primo film di Antoneta Kastrati è arrivato in concorso a Trieste con Zana, in un festival di risonanza per il cinema dell’Europa centro-orientale. Birdmen era di passaggio, e non s’è fatto sfuggire l’occasione di una recensione alla sua anteprima italiana.
Zana è un debutto notevole, intriso di elementi autobiografici e finestra su luoghi ai margini del nostro colpevole immaginario: la provincia del Kosovo. Là, sulle colline boscose solcate da bassi rigagnoli, si trovano comunità quasi arcaiche, ancora infuse di credenze mistiche, in cui l’egida patriarcale e il dovere della procreazione sono ancora indiscutibili. Gravano le assenze e le ricordanze esatte quotidianamente dalla guerra, uno sconvolgimento senza tempo, incapace di essere sanato e storicizzato.
Lume (Adriana Matoshi), di origini albanesi, vive con suo marito e sua suocera; dopo aver perso la figlia in guerra davanti ai suoi occhi, non ha avuto altre gravidanze, sottraendosi ai suoi primari doveri famigliari e suscitando in tutti apprensione. Per trovare una soluzione, la suocera, che diffida della medicina moderna, spinge Lume a rivolgersi a dei guaritori tradizionali; la sua ritrosia è sconfitta dalla minaccia che un’altra donna, più giovane di lei, prenda il suo posto in casa. Lo shock della perdita della prima figlia continua a tormentare Lume anche dopo il secondo, riuscito, concepimento, finché incubo e realtà saranno per lei indistinguibili.
La gestazione del film attraversa quasi due decenni e tutta la carriera della regista. Dopo una guerra vissuta in prima persona, Antoneta Kastrati intraprende una formazione giornalistica e presto si cimenta nel documentario breve, trattando nei suoi primi lavori di fenomeni sociali soltanto accennati in Zana, come ad esempio quello del misticismo tradizionale associato alle figure dei guaritori. È intorno anche a questo tema che il film seduce, offrendo con allusioni un quadro antropologico curioso: lo scetticismo verso le moderne scienze psicologiche non è che il volto ulteriore dello stigma verso il trauma della memoria e l’individualità della donna.
Il male endogeno appare incomprensibile, astruso, e le sue ragioni sono sempre riferite all’estraneo, l’esterno su cui può ricadere il controllo o il biasimo. Gli ispiratori di queste credenze sono i guaritori, che nel genere femminile hanno l’interlocutore preferito.
Nel film l’attaccamento alle credenze mistiche è incarnato nella suocera, donna vittima della tradizione e prima carnefice di Lume. Lo sguardo della regista sulla condizione della protagonista, madre e moglie prima che donna in una società anti-emancipativa, rende Zana un acuto esempio di studio di genere, senza svilire il potenziale melodrammatico della finzione; Lume non trascina con sé l’avvilimento di un genere, ma il dolore di un’intera nazione.
L’estrema fisicità della sua fatica e della sua sofferenza è merito anche di Sevdije Kastrati, direttrice della fotografia e sorella della regista, nonché prima film-maker donna di origine cosovare. Antoneta e Sevdije esorcizzano l’esperienza della guerra in un film di afflato corale, ricordando la scomparsa della loro madre e della loro sorella, avvenuta proprio negli ultimi atti della guerra in Kosovo.
Il trauma bellico sulla popolazione civile si promana dai silenzi dei personaggi, dalle fatue commemorazioni pubbliche e dagli incubi di Lume, popolati da paramilitari serbi: tutte ferite di una violenza dalle matrici incerte, di una storia vicina ma inavvicinabile nella sua analisi e nella gestione del dolore che ha causato. Raccontando la frustrazione di Lume, con il suo disperato abbandonarsi al richiamo della figlia uccisa, la regista incrina l’interdizione su tematiche di psicologia del dolore, incoraggiando la rielaborazione emotiva da un ricordo scevro di rivendicazioni politiche.
Il titolo si ispira alla mitologia paleo-balcanica: Zana è una divinità femminile, spesso associata alle montagne, ai boschi e anche personificazione del destino.
Sebbene si debba render merito a Kastrati della sua analisi sociale del Kosovo degli anni Dieci, è la sua sensibilità registica a decretare la riuscita di Zana. La tentazione dello sguardo occidentale di cedere alla narrativa di una sonderweg balcanica, a un’alterità incomprensibile e arcaica, eppure così vicina, mortifica la poetica e i significati universali del film. La distribuzione di Zana non sarà generosa con l’Italia, ma chi ama quest’arte deve esplorarne anche gli esempi minoritari, se virtuosi, come in questo caso. Il Kosovo ha un’industria forse agli esordi, ma può annoverare una promessa di risonanza in Antoneta Kastrati.

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