
Pinocchio – La luce di una fiaba eterna
Dopo l’incursione internazionale e fiabesca a tutto tondo de Il Racconto dei Racconti e la parentesi casalinga nelle periferie imbalsamate di Dogman, avevamo lasciato Matteo Garrone alle prese con il sogno di una vita, coltivato sin dalla più tenera età e accarezzato più volte nel corso degli anni. Il racconto del regista romano vuole che il primo accostamento alla favola di Pinocchio sia avvenuto all’età di sei anni quando, matita alla mano, Garrone iniziò a disegnare il celebre burattino, con l’insolenza e la passione che si può avere soltanto durante quel periodo della vita.
La magnifica ossessione, poi, sarebbe stata trasfigurata in pressoché ogni suo film, da L’imbalsamatore, in cui un giovane cuoco cede alle lusinghe di un tassidermista omosessuale affiliato alla camorra, a Reality, fiaba dolceamara sul raggiungimento di un Paese dei Balocchi mediatico, fino, ancora, a Dogman, anti-romanzo di formazione che non concede spazio alla crescita personale ma affonda la salvezza nell’oscuro gorgo del litorale romano.
Nell’ambito del cinema di Matteo Garrone, Il Racconto dei Racconti ha rappresentato una cesura e ha consentito al regista di gettarsi a capofitto nel territorio del fantasy autoriale. Il risultato, senza dubbio, segnava un parziale allontanamento dalla sua tradizionale modalità di sguardo. Fino a quel momento, infatti, in ogni suo titolo, Garrone aveva mostrato la volontà di individuare le falle in cui la realtà detona in altro, per dar vita alla sua trasfigurazione in un universo oscuro e fiabesco. La narrazione a episodi tratta dal classico di Giambattista Basile, invece, si è mossa in modo speculare, intercettando eventuali punti di contatto tra i racconti del 1634 e la contemporaneità. A ciò va aggiunto, poi, la naturale inclinazione pittorica di un regista in grado di trasformare ogni singolo fotogramma in un dipinto e di dare vita ad una serie di tableau vivant dall’indubbia forza iconica.
Sul versante opposto, Pinocchio concilia le esigenze più disparate che, ne Il Racconto dei Racconti risultavano alquanto sbilanciate e propendevano a favore di dinamiche illustrative che, alla lunga, hanno finito per raffreddare oltremodo il magmatico universo di partenza. La fiaba di Collodi è un caposaldo dell’immaginario collettivo italiano ed è stata oggetto di trasposizioni su grande schermo innumerevoli volte.
Per ovvie ragioni, potrebbe risultare superfluo soffermarsi su un testo che ha il suo baricentro principale sul rapporto tra un padre e un figlio. Pinocchio è il protagonista di un romanzo picaresco in cui un ceppo di legno trova la vita e viene adottato come figlio da Mastro Geppetto, un falegname che “estrae” un burattino in grado di parlare e muoversi da solo. Da questo momento, ha inizio il romanzo di formazione che ha come personaggio principale l’oggetto destinato a trasformarsi in essere umano, affrontando vizi e paure nell’ambito di un viaggio costellato da incontri al limite del surreale.
Senza dubbio, c’è da dare atto a Matteo Garrone di estremo coraggio. La sfida affrontata dal regista romano era una delle più complesse ed estenuanti, dal momento che non è affatto semplice dare una degna rappresentazione contemporanea ad una storia cristallizzata nella mente e nel cuore di molti di noi. Appropriarsi di una galleria di archetipi come quelli di Collodi, rispettare la filologia del testo originale, volgere lo sguardo alle illustrazioni di Enrico Mazzanti, provare a capire come attualizzare il racconto portato in scena ed arricchire l’insieme con le suggestioni visive proprio di uno sguardo personale prometteva essere un’impresa titanica che Garrone ha scelto di affrontare donando nuova linfa al rapporto con il testo di partenza.
Con il procedere della narrazione e con l’accumulo di situazioni caratterizzate da una componente oscura che, pur nella magia edificante e pedagogica del Pinocchio tradizionale, fa capolino in modo scomposto e sghembo, si nota l’operazione di tagli e rimaneggiamenti a cui il regista e sceneggiatore ha sottoposto la storia di Collodi.
È in tal senso che, come già detto, il Pinocchio di Garrone ha assunto la prospettiva di un romanzo di formazione incentrato sugli ultimi della società, che consentono al ceppo di trasformarsi in bambino non appena si accorge della loro esistenza e dell’affetto di un padre a cui soltanto il suo lavoro potrà garantire un bicchiere di latte e un piatto di cibo. Insomma, a Garrone non interessa tanto che il suo protagonista maturi in modo tale da inserirlo in un contesto societario pre-unitario e bisognoso di cittadini da formare quanto l’orgoglio di classe, la crescita emotiva ed il rapporto con i suoi simili.
Questa lettura consente il superamento della cecità di un’adesione incondizionata al testo di partenza e partecipa all’accostamento del testo di Collodi ad un territorio deputato all’azione di un regista da sempre attento anche al versante realistico della rappresentazione. Infatti, sarà impossibile non meravigliarsi di fronte alla tangibilità della polvere, allo squallore delle cascine, alla povertà di un falegname che ama il proprio figlio, elementi narrativi e scenografici che trovano la vita grazie all’eccellente lavoro di Nikolaj Bruel, Dimitri Capuani, Massimo Cantini Parrini e Mark Coulier.
Al netto delle più fantasmagoriche creazioni visive in grado di accostare la pittura macchiaiola ai mostri di Fussli, la commedia dell’arte e le derive gotiche, Pinocchio è un film portatore sano di luce e di amore, le due forze più misteriose ed intangibili che uniscono tutti gli esseri umani.
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