
Intervista a Bobbie Müller | Ce l’ho Corto Film Festival 2019
A fine proiezione del suo interessante Boys Don’t Cry (Danimarca, 2019, 10′), la ventenne regista olandese Bobbie Müller si è seduta con noi per un’intervista su presente e futuro del suo immaginario. Il cortometraggio, poi rivelatosi vincitore della Sezione Ce l’ho Corto di Ce l’ho Corto film Festival 2019, è stato una delle più belle sorprese del festival bolognese: la regista, presente in scena, ha saputo legare la forma dell’intervista alla narrazione di temi difficili e scottanti come quelli della “mascolinità tossica”, senza dimenticare la cura dei particolari e scelte stilistiche dai tratti molto marcati, soprattutto sul piano scenografico e prossemico. Considerando i soli 400 Euro di budget, Bobbie Müller riesce a costruire un’edificio solido e puntuale, forte di un montaggio capace di rinunciare a tantissimo girato. E chissà che in futuro non possa uscirne una serie o addirittura un documentario di più alto minutaggio…
L’intervista a Bobbie Müller è stata sbobinata e tradotta da Alice Luraghi.
🇬🇧 (read english version here)
Hai un fortissimo senso estetico. Cosa vuoi comunicare con i tuoi lavori e cosa ti dà ispirazione in questa tua visione?
A livello estetico mi ispiro, ad esempio, ad Harajuku (quartiere di Tokyo, ndr), che mi affascina moltissimo, fin da quando ero più giovane. L’estetica di questo luogo, così colorato, mi ha sempre comunicato tanto. Sono inoltre una grandissima fan della danza hip hop. Il senso di fare un determinato uso dei colori nel film è però legato al mio desiderio di analizzare l’influenza che hanno i media sulle nostre vite; per esempio, fin da piccoli, le femmine vengono identificate con il rosa e i maschi con l’azzurro. La scena dove sono presenti i corpi sullo sfondo è rappresentativa degli impulsi che arrivano a noi attraverso internet, i giornali, sottolineando quanto forzatamente questi vogliano dirci che uomini e donne dovremmo essere. Questo è ciò che volevo mostrare nel film, e non si può fingere sia normale, perché non lo è, e anche questo è rappresentato; basti pensare al momento in cui si vedono le figure di fronte alla camera, dove l’assurdità della situazione è resa ancora di più dall’uso dei colori. Peraltro, si capisce che si tratta di un set fin dall’inizio, proprio grazie a questa esagerazione.
Sulla scena hai inserito un televisore a tubo catodico: che significato c’è dietro a questa scelta?
L’immagine della televisione è sempre collegata ai media e agli impulsi che da essi arrivano a noi. La mia generazione, quella di chi ora ha vent’anni, è cresciuta con la TV e con Internet, che ci hanno influenzato nella percezione di cosa sia indice di bellezza e nell’idea che abbiamo di noi stessi in quanto uomini, o in quanto donne.
Come ti vedi in futuro a livello creativo? Che regista vorresti diventare?
Mi piacerebbe molto diventare regista. Mi interessano sia i film documentari che i film di finzione; in entrambi i casi ciò che mi piacerebbe rappresentare riguarda diverse tematiche sociali importanti sulle quali ho un’opinione forte. Allo stesso tempo, vorrei fossero argomenti vicini alla mia esperienza: per me il cinema, infatti, riguarda ciò che posso aver vissuto, attraversato e imparato, non si tratta di indagare qualcosa di lontano da me. Mi piacerebbe farlo in futuro, ma per ora voglio iniziare con ciò che conosco e vedo.
Vorresti essere presente in scena nei tuoi film, un po’ come il regista Werner Herzog?
Sì, certo! Peraltro, Herzog significa molto per me, come anche Ulrich Seidl. Ogni volta che vedo uno dei loro film mi sento male fisicamente, arrivo a detestarli (ride, ndr), ma poi ci ripenso e mi rendo conto che sono realmente in grado di rappresentare il genere umano. Seidl, in particolare, ne mostra le sfaccettature peggiori, mentre Herzog è più sottile, anche se ha le idee ugualmente chiare. Di entrambi amo il fatto che raccontino attraverso ciò che mostrano, creando esperienza invece di spiegarsi letteralmente. Non lasciano trasparire la propria opinione personale e mostrano al pubblico la vera essenza dell’essere umano per dare più spazio allo spettatore e permettergli di farsi una propria idea.
Parlando di registi, c’è qualcuno che trovi particolarmente interessante e il cui lavoro vorresti fosse conosciuto da un pubblico più vasto?
Intendi registi a cui mi ispiro in linea generale o registi emergenti nello specifico?
Entrambi.
In realtà, anche se è strano probabilmente, ciò da cui traggo maggior ispirazione è il singolo film. Ultimamente guardo soprattutto vecchi film che trattano temi che per me hanno una certa importanza. Il mio preferito, ad esempio, è un classico, La Haine, capolavoro del suo tempo sotto molti punti di vista. I protagonisti sono un ragazzo di origine ebraica e due giovani di colore, il che raramente viene rappresentato nel cinema francese. È un film senza tempo, che trasmette un messaggio molto forte: mostra il problema della corruzione, della polizia, delineando con precisione gli strati più bassi della popolazione e la loro depravazione morale. È un tema che è giusto affrontare anche oggi, un tema molto forte ed estremamente triste. Un film sulla violenza della polizia è attuale nel 2019 tanto quanto lo era vent’anni fa.
Cosa ne pensi delle piattaforme come Netflix? Che opportunità danno e potrebbero dare, magari, ai tuoi lavori futuri?
Penso che Netflix sia, allo stesso tempo, un dono e una maledizione. Ciò che di positivo ha questa piattaforma è che dà a registi internazionali la possibilità di mostrare i propri lavori al mondo intero, il che è straordinario. Allo stesso tempo penso, però, che stia sempre più diventando uno spazio esclusivo per film internazionali, rivolgendosi soprattutto a una maggioranza. Anche internet ha i suoi pro e i suoi contro. È una sorta di piattaforma per tutti ed è una grande opportunità per la mia generazione, perché chiunque ha uno smartphone e può registrare un video. Se il video in questione trasmette energia e un messaggio importante, in un modo che magari non è mai stato visto prima, è più probabile che abbia successo. Questo è ovviamente positivo. Ma il rovescio della medaglia è che c’è così tanto materiale, così tanti impulsi e così tante persone che caricano qualsiasi cosa online che può essere complicato scovare quello che c’è di buono.
Cinema o televisione? E perché?
Cinema, direi.
Ad esempio, preferiresti arrivare alla Mostra del Cinema di Venezia oppure approdare alla televisione, perdendoti tutto quello che riguarda i festival, i premi, i red carpet?
Ciò che più conta, per me, è il messaggio che voglio trasmettere al mondo. Questo significa che quello che mi interessa maggiormente è riuscire ad arrivare a più persone possibili, quindi senza focalizzarmi solo su un certo tipo di pubblico, che frequenta le sale cinematografiche più prestigiose. Anzi, vorrei colpire soprattutto coloro che non entrano in una sala così spesso, perché quelle sono le persone che hanno più bisogno del cinema e che da esso possono apprendere in modo diverso. Fare festival più importanti è straordinario, è un obiettivo che prima o poi mi piacerebbe tantissimo raggiungere, ma è come avere la certezza di trovarsi davanti un certo tipo di pubblico ricercato, con un suo status; il mio scopo, invece, è di arrivare anche a chi non ha queste possibilità.
L’ultima domanda è relativa ai tuoi studi. Puoi dirci qualcosa sulla tua scuola? Come sono i corsi e di che tipo di ambiente si tratta?
Vivo ad Amsterdam e ho studiato all’estero, in Danimarca, per un anno. Nello specifico ho frequentato un corso di otto mesi, dopodiché sono entrata nella Netherlands Film Academy, la scuola di cinema nazionale. Ci sono corsi differenti. Quelli di Cinematography ed Editing sono frequentati da una decina di persone, a Visual effects ci sono circa venti studenti, mentre a Directing Documentaries siamo solamente in cinque. Si tratta dunque di corsi estremamente specifici. Ho iniziato da poco e trovo si tratti davvero di un ambiente molto stimolante. Il cinema documentario olandese è piuttosto sviluppato, quello finzionale lo è meno; quello che so è che ad Amsterdam, la città in cui sono cresciuta, ci sono tantissime storie da raccontare, legate ai luoghi e alle persone che conosco, quindi penso sia per me un posto perfetto in cui stare, in questo momento.
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