
Gian Maria Volonté: l’uomo, l’attore, il personaggio
Morire recitando
Il sei dicembre di quasi ventisei anni fa a Florina, una città dell’entroterra greco, ci lasciava Gian Maria Volonté. C’è una tale mancanza di casualità in un fatto del genere da lasciare attonito anche il lettore più scettico. Volonté muore d’infarto mentre sta recitando per il film di Theo Angelopoulos Lo sguardo di Ulisse (1995); muore in un paese, la Grecia, che è il polo ideale di nascita e diffusione di tutte le arti classiche, incluso il teatro occidentale. Egli compie il suo ultimo viaggio mentre recita in una pellicola che prende l’archetipo per eccellenza del viaggio epico, quello omerico, per trasferirlo nella realtà tormentata dei Balcani del tempo.
Gian Maria Volonté era un attore certamente consacrato alla Musa della settima arte, se mai ce ne fosse una; o, meno aulicamente, aveva un talento mimetico fuori dal comune. La tensione tra i tre poli – l’uomo, l’attore e il personaggio – trova nella sua opera un punto di equilibrio unico. Nel rappresentare un personaggio, ciò che per definizione è “altro da sé”, l’attore Volonté accoglieva dei modelli, li incarnava e al contempo li piegava alla sua fisionomia, cambiandone la forma con uno studio quasi esegetico dei dialoghi. Il tutto senza mai prescindere da profonde istanze di tipo politico-esistenziale. Per dirla con le parole di Elio Petri, il regista con cui ha avuto forse il più importante sodalizio artistico (quattro film in dieci anni) nella storia del cinema italiano, Volonté era al contempo un grande osservatore del vero e un anti-naturalista, proprio perché tentava sempre di reinventarlo:
«C’è una doppia trasfigurazione: una trasfigurazione di Volontè nel personaggio […]; e poi c’è una trasfigurazione del personaggio in Volontè, il personaggio ritorna a Volontè, alla sua allucinazione, alla sua sofferenza di stare al mondo, alla sua ansia spesso puerile di non farcela, tutte cose che ne fanno un grandissimo attore, forse il più grande che ci sia in Italia oggi nel cinema».
Il fulcro della recitazione di Volonté sta in un’immediatezza comunicativa, quasi epifanica, che ogni interpretazione reca con sé; da questo grado zero, si va a stratificare una serie infinita di qualità umane e attoriali che rendono la sua figura una delle più complesse e al contempo universalmente amate del cinema italiano e mondiale.
Cinema e politica, cinema è politica
Gian Maria Volonté è ricordato come l’attore militante per eccellenza, sia a causa delle opere teatrali che ha messo in scena sui palchi e sulle strade con compagnie “guerrigliere”, sia dei ruoli accettati o rifiutati per il suo lavoro sul grande schermo. Il suo credo si potrebbe riassumere con il passaggio brechtiano secondo il quale «per l’arte essere “apartitica” non significa altro che essere “del partito dominante”».
Sarebbe tuttavia erroneo ritenere il suo un tipo di cinema diretto, esplicito o manicheo. La presa di posizione immediata, che traspare una volta elencati i film impegnati a cui Volonté ha partecipato nell’arco della sua trentennale carriera, nasconde qualcosa di molto più profondo e radicale: un vero e proprio intento di critica. Con le sue stesse parole:
«Tutto il cinema è politico. Anche quello privo di contenuti. Il discorso va impostato sul tempo libero, non sul contenuto del film. Oggi tempo libero cosa significa? Significa il momento dell’evasione, della non riflessione, del consumo. E il sistema ti offre i mille modi per riempirlo, compresi i film che ti mettono in condizione di non pensare. E questo è il dato politico».
I suoi film sono percorsi da continue tensioni dialettiche, la cui risoluzione non è mai univoca o priva di fortissime lacerazioni; quello che è in gioco non è la banale lotta tra bene e male, la glorificazione romantica dell’anti-eroe o l’apologia del respinto. La questione, politica e artistica a un tempo, è fare risaltare in modo netto le contraddizioni presenti nella natura dell’uomo, delle istituzioni e dei rapporti di potere che regolano la vita sociale in ogni epoca.
Operai, filosofi e professori
Il campionario di esempi celebri e meno celebri dei personaggi interpretati da Volontè è vastissimo. Ne voglio mettere in risalto tre che mi stanno particolarmente a cuore e al contempo riflettono l’incredibile complessità del suo modo di recitare e la profondità delle tematiche toccate.
La Classe Operaia Va In Paradiso (Elio Petri, 1972)
Lulù Massa è un operaio modello, sia nel senso di prototipo incarnato del ruolo che di ingranaggio inserito alla perfezione nel sistema. È il protagonista della pellicola, e su di lui si riversano gli effetti della nevrosi provocata dal lavoro automatizzato. Le sue fattezze sembrano scolpite nella ghisa, e vengono esaltate dai primissimi piani quasi esasperati di Petri; le sue movenze sono isteriche, scandite dai ritmi infernali della fabbrica. Il processo che lo porterà a prendere coscienza della sua alienazione è tutt’altro che lineare o pacificato, dal momento che la conseguenza sarà la presa d’atto dell’impotenza degli individui, della politica e dei sindacati verso i cambiamenti in atto nella modernità. La malattia mentale, in questo scenario, è rovesciata nella chiarezza della visione della follia del mondo.
Giordano Bruno (Giuliano Montaldo, 1973)
In quest’opera, l’interpretazione del celebre filosofo diventa l’occasione perfetta per portare sullo schermo non solo la vicenda arcinota della sua condanna a morte ma anche i chiaroscuri di una vita turbolenta. Il tema centrale, che viene sviluppato con una sensibilità che raramente si è vista nella storia del cinema, è quello della testimonianza, che diventa una questione di vita o di morte. L’ostinazione e la disperazione si mischiano sino quasi a confondersi nei dialoghi e nei monologhi interiori di Bruno durante tutto l’arco del film. L’epilogo, in linea teorica scontato, diventa una delle sequenze più tragiche e sofferte dell’intera filmografia di Volonté; è l’antitesi del monologo accorato di Bartolomeo Vanzetti in Sacco e Vanzetti (Giuliano Montaldo, 1971), perché qui a dominare sono solo il silenzio degli sguardi e il crepitio del rogo.
Faccia a Faccia (Sergio Sollima, 1967)
Infine, un ruolo raramente citato quando si parla della carriera di Volonté, ma che meriterebbe di essere riscoperto: si tratta del professor Brad Fletcher, protagonista di questo spaghetti –western meno celebre rispetto ai capolavori leoniani ma dalla valenza politica molto più marcata. L’arco evolutivo del personaggio è la rappresentazione plastica di un ribaltamento dei valori. Volonté prima rappresenta un individuo straniato dal contesto sociale, poi sempre più consapevole dei rapporti di forza e, infine, in preda di una follia anarchica, sanguinaria; l’attraversamento di ciascuna fase si accompagna a una serie di metafore politiche e all’inesorabile insinuarsi di un sentimento di violenza in tutte le azioni che vengono compiute. La corruttibilità dell’animo del professore ha, tuttavia, una natura ambivalente: siamo portati costantemente a chiederci se sia stata dettata dalle circostanze o dalla stessa natura dell’uomo.
Un’eredità da preservare
Al netto di queste osservazioni, venticinque anni dopo la morte di Volonté è quasi un imperativo morale preservare l’immensa eredità culturale che ci ha lasciato. Alcuni dei suoi film godono di una diffusione online su servizi di streaming legale, il che è un’ottima notizia per chi, specialmente tra le giovani generazioni, oggi vuole approcciarsi al suo cinema. Sul servizio streaming a pagamento Amazon Prime Video si possono trovare infatti La classe operaia va in paradiso (Elio Petri, 1972), Uomini contro (Francesco Rosi, 1970), A ciascuno il suo (Elio Petri, 1967) e Sbatti il mostro in prima pagina (Marco Bellocchio, 1972); su Rai Play, che è un servizio gratuito, si trovano invece Per un pugno di dollari (Sergio Leone, 1964), Sacco e Vanzetti (Giuliano Montaldo, 1971), L’armata Brancaleone (Mario Monicelli, 1966) e Lucky Luciano (Francesco Rosi, 1973).
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