
Intervista a Franco Calandrini, Direttore Artistico del Ravenna Nightmare Film Fest
Domenica 3 novembre, giornata di chiusura della XVII edizione del Ravenna Nightmare Film Fest, ci siamo seduti con il Direttore Artistico del festival Franco Calandrini per tirare le somme di questa edizione. Ne è emersa un’interessante chiacchierata sullo stato del cinema di genere in Italia, l’avanzare della serialità come eccellenza e su quella volta che David Lynch è passato a Ravenna. Qui di seguito l’intervista a Franco Calandrini.
Complimenti per la manifestazione Direttore. Alla sua conclusione si può dire soddisfatto?
Molto soddisfatto. Siamo riusciti a dare forza all’idea con cui siamo partititi cinque anni fa: indagare in maniera molto più profonda il lato oscuro del cinema senza porci troppi limiti di genere. Eravamo partiti solo coi film horror, mentre il lato oscuro apre tante soluzioni, altre opportunità. Di fatto, ci permette sia in concorso che nelle sezione Contemporanea di avere una varietà e qualità maggiore rispetto che con un genere solo. Possiamo muoverci tra la fantascienza, il crime, il thriller e anche l’horror stesso. La proposta diventa molto più interessante. È l’evoluzione degli ultimi cinque anni che un po’ alla volta ci hanno dato ragione, anche se è un processo lungo e la gente crede ancora facciamo solo horror: noi non lo facciamo più di quanto non ne faccia Cannes, non a caso abbiamo due film di Cannes in concorso. E’ diventata quasi una necessità smarcarsi da questo messaggio che viene ancora un po’ frainteso. Il lato oscuro è molto più ricco, il film della Cavani in un festival di horror non ci sarebbe. Sono delle aperture che per noi erano diventate fondamentali, anche per il bene del concorso stesso, quando inizi a selezionare dei film sulla base di un solo genere se ne inficia sicuramente la qualità.
Parlando di festival e cinema di genere: viviamo in un momento in cui Venezia ha sdoganato completamente il genere, specialmente dopo Leoni d’Oro come La forma dell’acqua e Joker. Il cinema di genere ha davvero bisogno di essere legittimato dai grandi festival o vive benissimo già così com’è?
Bisogna vedere se questo permette di far riconoscere il genere a chi non l’ha riconosciuto fino adesso. Il genere ha sempre avuto vita propria e se n’è sempre fregato dell’autore, del critico. Ha attraversato tutte le epoche, si è imposto nonostante tutti. Anche perché quasi sempre un autore vero, con una vera marca autoriale, nel genere ci finisce prima o poi, perché gli dà più libertà di movimento. Alcuni poi lo frequentano con più assiduità, altri saltuariamente. Penso anche a un autore come Polanski, che non sarà un autore di cinema horror, però ha interpretato quel genere in modo strepitoso. Sono autori che mi interessano molto perché hanno una gamma di colori più ampia, pur restando fermi al lato oscuro del cinema, quello che a noi interessa.
Riguardo al concorso di quest’anno, vede emergere un tema cardine, una qualche riflessione sulla contemporaneità?
Nessun filo conduttore particolare. Forse la cosa che più unisce i vari film del concorso, anche con i film della sezione Contemporanea come Hail Satan?, è la necessità di liberarsi dai preconcetti. Sono tutti autori che ci mostrano un punto di vista diverso dell’oggetto di cui si parla e che magari pensiamo di conoscere. Film che abbiamo presentato qui, come Sons of Denmark, danno una rappresentazione di un futuro imminente che sembra rimandare alla distopia di Black Mirror, quel futuro che ti chiedi se non sia già arrivato. Ed è un modo intelligente e profondo di narrare l’inquietudine. Siamo molti appassionati a questo tipo di proposta, è innovativa, nel linguaggio e nel soggetto.
Parlando appunto di serie televisive, vediamo come Venezia si stia allargando sempre più anche al seriale. Condivide questo interesse in crescita e, idealmente, le piacerebbe avere un concorso dedicato alle serie televisive?
Mi piacerebbe molto. Le serie televisive hanno travolto ogni barriera, soprattutto nel crime, nell’horror, nella fantascienza e nel fantasy. Hanno aperto davvero spiragli enormi sul genere e del genere ne hanno fatto necessità. Quando ci sono tanti soldi in gioco riesci anche a prendere gli autori e scrittori migliori, in qualche modo hanno intercettato una zona. Trovi gli attori che erano spariti e lì li riscopri eccellenti, una specie di seconda vita. Penso anche a Big Little Lies, con dei colossi, delle star che hanno prestato la loro arte alla serialità. Ovviamente è anche grazie al denaro che c’è attorno, se ti permetti i migliori sceneggiatori e registi poi puoi attirare i migliori attori. E’ anche inevitabile, il seriale raggiunge milioni di spettatori quando un film qualche centinaia di migliaia. Questo per me fa una differenza sostanziale, chi non ha visto Il trono di spade o The Crown? E’ un modo di narrare trasversale. In questo contesto mi viene in mente quello che diceva Lynch del suo Twin Peaks, un pioniere in questo linguaggio, perché è stato intelligente anche nel modo di proporre le sue cose. A quei tempi il grande pubblico televisivo si concentrava nel serale del weekend, ma lui impose di trasmetterlo al giovedì, in maniera che la gente ne parlasse subito il giorno dopo, in ufficio. E’ un modo per lanciare il tuo prodotto a livello trasversale. Un prodotto come Twin Peaks non ha bisogno di essere visto dagli intellettuali, è davvero un linguaggio popolare che arriva a tutti i livelli. Ha formato il gusto degli spettatori assieme anche ad altre serie, raccogliendo tante forze e menti importanti che ora il cinema fa fatica a permettersi. C’è una specie di migrazione delle migliori menti alla televisione. Quando vedi un regista come Soderbergh che fa The Knick, o Tom Hardy che fa un prodotto strepitoso come Taboo. Quando personalità simili danno la loro arte alla serialità, vuol dire che ci credono davvero e molte volte infatti figurano come produttori esecutivi. Come in True Detective, un prodotto che è pura scrittura cinematografica, matura, che ti mette nella condizione di doverla seguire con attenzione, Nic Pizzolatto con la seconda stagione ha raccolto anche la sfida di non volersi ripetere, aggiungendo il casting geniale di Vince Vaughn. Ma anche la terza stagione, quando arrivi a quei livelli lì non gli dai 10, ma 9+. Sono serie con cui non hai il dubbio di rimanere deluso. Sono le nuove frontiere.
Spostiamoci al tasto dolente: cinema di genere in Italia. Questa sera sarà presentato The Nest di Roberto De Feo. Ma pensiamo anche a Matteo Rovere, Sydney Sibilia, Gabriele Mainetti. Cosa ne pensa della situazione italiana?
Nel cinema italiano non c’è. Non c’è una scuola, non c’è più. Certo, ci sono solo delle vette. Un film che per me ha fatto da spartiacque, con un prima e un dopo, è Lo chiamavano Jeeg Robot. Dopo quel film non puoi più fare i super eroi alla Il ragazzo invisibile, come Salvatores, ti devi comunque confrontare con il film di Mainetti, questo modo di far vedere i super eroi. Ed è importante che un italiano lo abbia fatto. Però sono degli episodi, non è un’ondata, una new wave di genere italiano. Anche perché, per me, Matteo Garrone ha sempre fatto film di genere anche se lo hanno sempre voluto scollegare. Pensa a Primo amore, L’imbalsamatore, Il racconto dei racconti, lui ha sempre affrontato il genere in una maniera importante senza però essere connotato come autore di genere. A me piace molto quel tipo di cinema lì.
Intende quindi che in Italia non si potrà avere una vera, pura scuola di film di genere, ma semmai accontentarci di come è inserito sfumatamente nei nostri autori, come Garrone appunto?
Non saprei. Un po’ anche le risorse economiche sono molto limitate. Per me c’è un rapporto tra qualità e quantità. Faccio una metafora semplice: in Italia abbiamo bravissimi calciatori perché tutti giocano a calcio come in Australia hanno dei rugbisti forti perché giocano tutti a rugby. Parlando di cinema, noi abbiamo avuto per tanti anni un festival di corti a Imola. La Spagna produce quasi trecento corti l’anno ed è ovvio che lì trovavamo prodotti strepitosi. Se tu ne produci cinquanta, è difficile trovare l’eccellenza se la quantità è poca. C’è un rapporto inevitabile tra quantità e qualità. Ovvio che i geni possono emergere dappertutto, ma se non c’è tradizione difficilmente puoi avere una quantità. Noi in Italia ce l’avevamo, in passato, ma erano altre condizioni produttive, la sala era meno ostica di quanto lo sia adesso.
Se idealmente lei potesse ospitare qua a Ravenna l’autore che più rappresenta il concetto di nightmare, chi sceglierebbe?
Tra i maestri sicuramente Cronenberg. Tra i giovani Lars von Trier o Refn. Che tra l’altro era già stato a Ravenna parecchi anni fa, quando aveva fatto la trilogia di Pusher. Adesso ovviamente è inarrivabile.
Una piccola chicca per i nostri lettori a poca distanza dalla consegna dell’Oscar alla carriera a David Lynch. Ci può raccontare com’è riuscito a farlo venire qua a Ravenna nel 2017?
In una maniera non legata al cinema ma alla sua passione per la meditazione trascendentale. Lui su quello ci ha fatto quasi la sua ragione di vita, è meno interessato al cinema che non alla meditazione. Un liceo di Ravenna ha adottato il metodo di meditazione trascendentale che lui promuove e supporta attraverso la sua fondazione, con un programma specifico per scuole ed istituti di provincia. E’ un metodo molto complesso e impegnativo. Questa scuola l’ha adottato, e quindi l’abbiamo invitato a Ravenna. L’abbiamo avuto come ospite non legato al suo cinema, quindi, ma a un documentario sulla meditazione trascendentale come film d’apertura della manifestazione. E’ stato molto professionale e disponibile. Ci siamo parlati ma ricordo che solo ad essere a contatto con lui mi sentivo tremare, per l’icona e il mito che è. Abbiamo queste bellissime foto di lui circondato dai ragazzi della scuola. Ormai Lynch finché vive può fare qualsiasi cosa, quando hai creato le basi della storia del cinema e della televisione non ti preoccupi più di cosa sarà il tuo prossimo film.
A questo link trovi il sito di Ravenna Nightmare Film Fest.
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