
Feral – Incubi found footage alla messicana | Ravenna Nightmare Film Fest
Quando la tua nazione ha partorito tre delle più grandi stelle del firmamento cinematografico contemporaneo – i tre amigos Iñárritu, del Toro e Cuarón – c’è un’eredità ingombrante con cui confrontarsi. Il Messico rimane però una terra dalle mille tensioni e inquietudini, le storie non si esauriscono mai per chi è alla ricerca di materiale. Per Andrés Kaiser si tratta di battere le strada dell’orrore, e come ogni buon debuttante decide di adattare le sue ambizioni a una modalità narrativa abbordabile: il falso documentario e found footage, rampa di lancio di tanti aspiranti registi a corto di budget.
Siamo negli anni ’80, a Oaxaca, Messico. Una troupe televisiva indaga su un caso che ha scosso l’isolata comunità locale: una casa nel bosco è andata in fiamme assieme ai suoi quattro inquilini, un prete di nome Juan Felipe e tre bambini da lui accuditi. Gli intervistati raccontano come l’uomo fosse ormai ritirato dalla vita di chiesa e dedito a una missione particolare: il reinserimento in società di ragazzi selvaggi attraverso gli insegnamenti della Bibbia e le sue conoscenze da psicoanalista, all’origine del suo allontanamento dal clero. Un esperimento portato avanti con la registrazione di numerose VHS a testimonianza dei suoi progressi e di cui la troupe riesce a entrare in possesso.
Feral parte benissimo, imbastisce il racconto dal tragico finale e da lì procede a ritroso. L’indagine su padre Juan Felipe e su cosa sia andato storto nel suo esperimento è un racconto fatto di interviste a mezza bocca, nastri consumati e fotografie scolorite. Certamente il genere found footage è uno dei più abusati nell’era contemporanea e Andrés Kaiser non porta nulla di nuovo, mostrando però un’ottima mano nella gestione nel ritmo e grande consapevolezza nell’uso dei migliori trucchi che questa modalità di narrazione permette. Da ex montatore piega ottimamente gli stilemi del classico reportage d’inchiesta, sa scegliere quando far respirare il racconto e quando procedere spedito con una ellisse ben piazzata.
Soprattutto nella prima parte Feral azzecca alcuni momenti di genuina inquietudine, certe pennellate di orrore magistralmente inserite attraverso il racconto degli intervistati. C’è del marcio nella comunità paesana fintamente sconvolta dalla tragedia, quanto c’è del marcio in padre Juan Felipe, uomo di fede attanagliato dal dubbio e che elegge la telecamera a suo nuovo confessionale. La vicenda prende le mosse da una riflessione generale sull’etica della fede nel perseguire scopi superiori. Il protagonista è determinato a usare le sue conoscenze per fare il dono più importante ai piccoli selvaggi da lui soccorsi: l’uso del linguaggio come massima espressione della nostra umanità.
Con tali ambizioni in gioco è un vero peccato vedere Feral cadere rovinosamente nella seconda parte. Più la trama procede e i misteri si accumulano uno sopra l’altro, più la struttura del falso documentario cede, inizia a scricchiolare, sia per la narrazione che nel puro meccanismo scenico del terrore. Interi filoni di mistero, come quello legato ai segreti della comunità di paese, non sono mai adeguatamente sviluppati, mentre numerose sequenze di suspense girano a vuoto quanto gli smarriti protagonisti all’interno dell’ennesima, interminabile inquadratura fissa. L’ultima mezz’ora è una cavalcata svogliata e insoddisfacente verso un finale frettoloso, incapace di tirare adeguatamente le fila. In una storia che a ben vedere avrebbe funzionato egregiamente al di fuori della modalità da finto documentario, Andrés Kaiser cade vittima del suo stesso congegno narrativo.
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