
“Attacco al potere 3” è un videogioco
Dopo Olympus Has Fallen (2013), London Has Fallen (2016) e tre anni di attesa, esce Angel Has Fallen (2019) – terzo capitolo della saga di Attacco al potere – che vede protagonista l’indistruttibile Gerard Butler a impersonare l’agente dei servizi segreti Mike Banning. Già eroe assoluto dei primi due capitoli, Banning si deve preparare a sventare l’ennesimo complotto verso gli USA nella persona del presidente (interpretato da Morgan Freeman). Insomma, stessa solfa e stesso pretesto per scatenare sullo schermo 121 minuti di cazzotti e sparatorie. La minaccia, questa volta, proviene subdolamente e segretamente dall’interno, come accade sempre negli intrighi di potere.
Tralasciando gli aspetti superficiali di una trama che ormai è solo un canovaccio, preme sottolineare come Attacco al potere 3 sia un videogame, più che un film. Ecco perché non spenderò molte parole sulla vicenda nello specifico, né tanto meno su insignificanti personaggi accessori. Nella parte del “protagonista di videogiochi”, Butler è ormai un veterano: in primis nel caso di Gamer (2009), ma non sono da meno quei film che, vedendolo protagonista, assecondano l’azione immersiva degli “sparatutto” – i precedenti Attacco al potere, Giustizia privata (2009), Nella tana dei lupi (2018).
La scena d’apertura è emblematica: in medias res prendiamo parte insieme a Banning a un combattimento con nemici di cui nulla sappiamo, in un luogo a noi e a lui sconosciuto che ci disorienta. Gettati senza punti di riferimento in un’azione di guerra, scopriamo solo al culmine della tensione che si tratta di un gioco, una prova in un campo di addestramento senza pericoli letali. Nel pieno dell’azione si nota una fulminea soggettiva del protagonista, quasi un bug che ci fa passare dalla terza persona alla prima persona, rompendo la fluidità dell’azione e puntando a una forte immersività. D’altronde che cos’è un campo di addestramento se non un grande set in cui giocare a fare la guerra?
Gli stilemi tipici del film d’azione caratterizzano questo gioco iniziale che, in seguito, viene sviluppato e complicato ulteriormente. Banning si trova inserito nella trama scontata di un gioco di potere nel quale è obbligato ad agire. È in funzione sua che viene ordito tutto il meccanismo complottistico; è lui, infine, l’unico a poter risolvere la situazione insolvibile che si è creata. L’obiettivo del film – scusate, del gioco – è completare la missione sventando il complotto, in modo da vedere il protagonista trionfare insieme al suo presidente. Non può andare altrimenti e non gli servono nemmeno più tentativi (più vite) per riuscirci. Da notare anche come vengano attraversate varie categorie di gioco nello svolgimento dell’azione: si passa con fluidità dallo sparatutto al gioco di automobilismo, da quello di strategia a quello di evasione, eccetera.
Il movimento del protagonista nella vicenda è quello di chi viene accusato ingiustamente e fugge, elaborando un modo per svelare la trappola in cui è caduto. Tutto ciò lo porta a ritrovare agevolmente il vecchio padre (interpretato da Nick Nolte) che vive in un capanno nei boschi. Dopo una parentesi tanto comica quanto violenta, è il momento di rientrare pienamente nella gabbia dei leoni (così ripete più volte l’amico-traditore Wade Jannings, «Siamo leoni»). La necessità febbrile di agire, di conseguire lo scopo della missione, prende il sopravvento. A distinguere veramente il “leone Banning” dal suo avversario Jannings è il differente approccio al “gioco della guerra”. Il primo la affronta spavaldamente e con fervore. Banning potrà sempre mascherare l’adrenalina che prova nell’uccidere dietro alla missione valorosa di salvare il presidente. Jennings vorrebbe viverla con la stessa sicurezza e provare la medesima adrenalina, ma ha un modo di agire troppo prudente e poco impulsivo. Inutile dire che soccomberà nello scontro finale.
Butler, come Banning, evidentemente si diverte molto ad agire sul set. Quello dell’attore è il gioco di prestare un corpo al personaggio di Banning, dando vita a un player a metà tra un avatar e un essere umano. Lo spettatore vede in azione un gioco al quale vorrebbe partecipare attivamente. Perché? Perché è immersivo; perché ha un ordine e un obiettivo, delle missioni da compiere; perché ha un livello di azione, uno di strategia, uno di intrattenimento: è una simulazione; perché anche per Banning/Butler tutto ciò che accade è un gioco architettato da altri (il regista?) a cui si deve prendere parte. Perciò si ritorna alla questione del controllo, di chi muove i fili, già affrontata in Gamer: chi ha il controllo? Chi influisce davvero sullo svolgimento delle azioni? A chi appartiene questo dannato “Potere” che viene continuamente attaccato? Tematizzare tali problemi attraverso l’espediente dell’immersività appare ormai un vezzo di maniera poco produttivo. Se come videogame Attacco al potere 3 non sarebbe stato innovativo, per lo meno sarebbe stato intrigante; come film, però, risulta qualcosa di abbondantemente già visto.
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