
A un metro da te: l’intoccabile è toccante?
Se lasciamo a Shakespeare i contrasti tra Montecchi e Capuleti, quale altro maggiore ostacolo potrebbe esserci per due persone mentre s’innamorano? E quale storia per i giorni nostri – con così tanta pressione che ruota intorno alle relazioni sociali – potrebbe cercare di lasciare un segno?
Certamente questo non è il primo e non sarà l’ultimo film (beasti pensare alla serie: Colpa delle stelle, Il sole a mezzanotte, Io prima di te…) a raccontare una travagliata storia d’amore tra due ragazzi che si vedono ostacolati da una malattia, ma raramente – come in questa vicenda – il topos della distanza imposta agli “star crossed lovers” si “materializza” in un veritiero – per quanto incredibile – divieto che lega amore e morte, qualcosa che alberga nel corpo, come il sentimento nell’anima. Nonostante il genere del “dramma romantico con malattia terminale” possa suscitare facili ironie, associare lo slancio sentimentale e sessuale alla morte è un processo atavico, eros e thanatos da manuale, difficilmente contestabile nella sua efficacia drammatica e nella sua potenza evocativa.
Il destino avverso prende le sembianze della fibrosi cistica. Stella (Haley Lu Richardson) ha 17 anni ed è periodicamente costretta dalla malattia a lunghe permanenze in ospedale, ma il migliore amico Poe (Moises Arias) – che condivide il morbo – e l’affetto di medici e infermieri stimolano la sua caparbietà nel tenere duro, manifestando al contempo il bisogno di controllare – per quanto possibile – il presente. Eppure, i pericoli – palesemente – attirano chiunque, e Will (Cole Sprouse) è uno di questi. Il ragazzo, da poco arrivato in clinica, sembra non prendere sul serio la terapia – a causa della consapevolezza che, per la gravità della sua situazione, non potrà mai ricevere un trapianto di polmoni –, richiamando, così, l’attenzione di Stella. Costretti a tenersi ad almeno due metri l’uno dall’altra – come tutte le persone affette da quel malanno –, quando tra di loro sboccia un tenero amore, decidono di “riprendersi” un metro di distanza. Come si manifesta e cresce l’amore quando si è costretti a rispettare una distanza di sicurezza ed è vietato anche solo sfiorarsi?

«Contatto fisico. Abbiamo bisogno di quel contatto con la persona che amiamo, quasi quanto il bisogno di respirare. Non l’ho capito fino al momento in cui non ho più potuto averlo. Questa è la mia vita con la fibrosi cistica.»
Diretto dall’attore Justin Baldoni (visto ultimamente nella serie Netflix Jane the Virgin), che ha ideato il progetto dopo aver parlato in una sua serie di documentari (My Last Days) con una ragazza afflitta da fibrosi, A un metro da te ha il merito d’avere ben chiara la sua intenzione poetica ed esistenziale, sin dalla prima sequenza: Stella conversa con le amiche in quella che appare la stanza qualsiasi di un’adolescente, ma, quando le amiche escono, recupera una flebo fuori campo e il totale rivela che siamo in un ospedale. Al regista interessa il diritto a una normalità negato da una condizione fisica invalidante, e allo stesso tempo vuole ricordarci quanto quella normalità che diamo per scontata sia un bene preziosissimo. Il messaggio arriva.

«Chi ha tempo per la delicatezza, Stella? Noi no di certo…»
«Smettila! Smettila di ricordarmi che sto morendo. Lo so. Lo so che sto morendo.»
Le riprese si svolgono quasi interamente all’interno di un ospedale senza mai risultare claustrofobiche; come mai? Perché il regista Baldoni si avvale della collaborazione di Claire Wineland – personaggio dei suoi documentari, e ispiratrice per il personaggio femminile – che illustra da vicino, anche agli attori, come un essere umano riesca a far suo anche un luogo che inizialmente detesta.
Stella e Will, più ancora che agli amanti tristi Romeo e Giulietta, riportano alla mente quelli di Titanic attraverso la promessa che Jack strappa a Rose di poterla disegnare – così come Will con Stella – ponendo le basi sulla carta di un processo di fissazione dell’amata, che strizza l’occhio al dispositivo cinematografico che lo contiene.

«Io non voglio ferirti, non posso.»
I protagonisti sono tridimensionali e ben scritti, e, se è vero che nell’ultima parte il film cade in meccanismi narrativi piuttosto prevedibili – l’abbandono la “retorica fuori controllo”, fino a espedienti narrativi telefonati e piuttosto goffi, e a condizioni fisiche estreme che per magia diventano meno limitanti –, ciò non sottrae alla sceneggiatura la sua forza e il suo calore – il suo effetto drammatico – soprattutto per un pubblico adolescente.

«Per tutto questo tempo ho vissuto per fare la terapia, invece di fare la terapia per poter vivere. E, io voglio vivere.»
Il genere del teen movie appare, dunque, ampiamente esplorato, con l’inserimento di temi interessanti trattati con tatto e sensibilità, e supportato da una recitazione molto convincente soprattutto da parte di Haley Lu Richardson, ma ci sarebbe voluta tuttavia una maggiore maturità narrativa per renderlo coinvolgente anche per il pubblico con qualche anno in più (e le potenzialità c’erano).

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