
U Muschittìeri – Il piccolo Giovanni Falcone raccontato da Vito Palumbo
Giovanni Falcone è un eroe di stato. La sua storia di impegno civile, con il tragico finale, è stata spesso fonte di sceneggiati atti a rievocarne la memoria, per tentare di affrontare, a livello popolare, il tema della lotta alla criminalità organizzata.
Il cortometraggio di cui parliamo in questo articolo è U Muschittìeri, di Vito Palumbo, opera dal tono intimo e delicato, un racconto di formazione che cerca una nuova chiave di lettura della vita di Falcone, immaginando la quotidianità dell’infanzia del magistrato siciliano. Un racconto del passato, dell’Italia che fu, di un bambino che osserva il male spargersi nella sua città e che, indossando la casacca del moschettiere, del D’Artagnan di Dumas, tenta di scacciare la paura dal proprio cuore.
Il giovane interprete, Gabriele Provenzano, rivela grande dote nel donare vita al ricordo del magistrato. Il film annovera tra i suoi più importanti collaboratori il maestro Daniele Ciprì, impeccabile come sempre, che accompagna la regia nell’evocare la particolare atmosfera della Sicilia del secondo dopoguerra.
Vito Palumbo è uno degli autori di cortometraggi di fiction più interessanti presenti in Italia, tra i suoi lavori non possiamo non citare Child K, Poppitu, Ice scream. U muschittìeri è stato prodotto da Recplay, Beagle Media, Intergea, con il supporto di Rai Cinema.
Abbiamo il piacere di poter conversare con il regista Vito Palumbo.
Il piccolo protagonista ama la grande letteratura per l’infanzia. Dietro il grande magistrato, prima della legge, prima del diritto, c’è stata la riflessione etica tra giusto e sbagliato ispirata dalle grandi narrazioni come Zanna bianca e i Tre moschettieri?
Questo cortometraggio è ispirato a una storia vera e, dai racconti delle sorelle di Giovanni, viene fuori il profilo di un bambino estremamente curioso che amava vivere mondi immaginari, frutto della sua fervida fantasia. Io non credo che un bambino di quell’età abbia la capacità di compiere, in maniera consapevole, riflessioni etiche, ma di certo Giovanni era un bambino che amava la cultura e che da piccolo leggeva tantissimo e mi piace immaginare che la scelta di intraprendere il percorso che lo avrebbe portato, in seguito, a diventare l’eroe moderno che tutti ricordiamo, sia stato anche conseguenza dell’episodio che ho deciso di immortalare nel mio lavoro.
Come è stato il lavoro di studio e caratterizzazione di questo personaggio, non solo realmente esistente, ma eroe di Stato? Quanto tempo ha necessitato l’approfondimento di un’infanzia che ci riporta anche all’immediato secondo dopoguerra?
Prima di scrivere una sola parola dello script di questo cortometraggio è stato fatto un lavoro di ricerca molto importante. Credo sia importante immergersi totalmente in una storia quando si decide di raccontarla e questo diventa necessario quando la storia è realmente accaduta. Raccontare la storia di Giovanni mi ha da una parte emozionato e dall’altra riempito di responsabilità, perché avevo voglia di restituire un bambino vero, una struttura che fosse il più possibile fedele al reale. Una cosa che mi è rimasta dentro è stata entrare nello studio di Falcone. In quegli attimi sentivo di respirare la sua stessa aria, di guardare le stesse cose che ogni giorno vedeva lui.
Il lavoro di approfondimento è durato diversi mesi e devo ringraziare le sorelle di Giovanni – Maria e Anna – per aver avuto voglia di condividere il loro passato con me.
Trovo molto interessante il personaggio del Guercio, che, nella fantasia del bambino protagonista, diventa una rappresentazione del boss che sta mietendo vittime. Da quale cultura arriva questo particolare soggetto del presepe?
Il personaggio del Guercio è stata la fedele riproduzione del vero pupo che nella vera storia ha terrorizzato Giovanni. Le sorelle Falcone custodiscono i personaggi di quel presepe come fossero oggetti preziosi. Sono statuine di inizio novecento che, Arturo, padre di Giovanni, aveva recuperato da una zia del piccolo Falcone.
In un momento di confronto, il papà incoraggia il figlio: «I veri coraggiosi sono quelli che non temono le proprie paure», davanti al grande presepe, la città che Giovanni ama e vuole proteggere. Cosa teme più di ogni altra cosa il bambino rispetto al mondo in miniatura, la sua città?
Giovanni, nel racconto, sente minacciati i suoi affetti e mi piaceva l’idea di estendere la vicenda, prevalentemente costituita di interni, agli esterni, utilizzando la riproduzione in scala della città di Palermo. Ho immaginato l’introduzione del Guercio nel presepe come l’infezione di un virus che finisce per contaminare Palermo ed estendersi fino a prenderne possesso.
Nell’aula scolastica di Giovanni, mentre si recita la preghiera col maestro, alcuni Bambini commentano uno degli ultimi omicidi. Che ruolo assumono i bambini in una società dominata dal potere intimidatorio della criminalità organizzata?
Questo cortometraggio nasce con il proposito di arrivare nelle scuole perché ritengo fondamentale far conoscere alle nuove generazioni la storia di Giovanni. A tal proposito mi piace citare Gesualdo Bufalino, poeta siciliano contemporaneo ed ex insegnante: la mafia verrà sconfitta da un esercito di maestri elementari.
Ecco, credo che la cultura e la sensibilizzazione al bello possa realmente essere un’arma incredibile per far scomparire la parola ‘mafia’ dal vocabolario.
L’autore della fotografia del tuo film è stato il grande Daniele Ciprì. Ti va di parlarci un po’ della della vostra ricerca visiva? Quali sono state le riflessioni per evocare un sud Italia di molti anni fa?
Ho scelto Daniele Ciprì in modo convinto perché volevo che diventasse custode e testimone della cultura siciliana. Oltre a questo, Daniele è un maestro incredibile che riesce ad entrare in profonda sintonia con i registi con i quali collabora e a restituire in modo perfetto il loro immaginario.
Abbiamo cercato insieme dei riferimenti pescandoli dai nostri vissuti e in particolare dal suo viscerale rapporto con Palermo. E’ stato un viaggio nei suoi luoghi, nel negozio di fotografia di famiglia, nelle sue frequentazioni, nel racconto della sua Sicilia. E per fare cinema il modo migliore è parlare della vita.
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