
Urania d’Agosto: alla ricerca del sé tra Lucia Calamaro e Davide Iodice
Maria Grazia Sughi è già sul palco, seduta e ad occhi chiusi, quando il pubblico entra in sala per assistere a Urania d’Agosto, spettacolo ospitato dal Teatro Fraschini di Pavia, la sera del primo marzo. Il monologo di cui si fa voce è un testo di Lucia Calamaro, candidata al premio Ubu nel 2017 per La vita ferma e vincitrice nel 2012 con L’origine del mondo-ritratto di un interno. I suoi testi, che paiono sempre esplorare il reale attraverso l’interiorità dei soggetti messi in scena, portano a teatro personaggi insoliti ed inediti. È proprio questo il caso di Urania, una signora di una certa età, intenta a riflette sull’esistenza in modo quasi disperato, facendosi carico di un’umanità pura, che non perde di intensità nell’attenta regia di Davide Iodice. Esattamente come lui stesso l’ha definita, Urania d’Agosto è “un canto psichico”, un urlo in mezzo ad un universo apparentemente freddo e vuoto, chiuso in quattro pareti azzurre di quella che pare essere una casa di cura per anziani.
Il caldo di agosto contribuisce a rendere la città deserta, abbandonata, e quando Urania si sveglia e prende la parola, la sua stanza disadorna, (e minimalista sino all’osso), diviene il microcosmo dove la donna inizia a riflettere. Attorno la scenografia si carica dell’azzurro delle pareti e di pochi oggetti: un letto d’ospedale, un tavolo con due sedie, una poltrona. Una televisione che trasmette con insistenza filmati di mondi ed universi che, come i discorsi dell’anziana, sono lontani ed irraggiungibili. Urania abita tutto l’ambiente attorno a sé con le sue parole, spazia tra l’insonnia che la tedia, e non le regala neanche un momento di sereno riposo, al desiderio di distrarsi leggendo, alla volontà di uscire e prendere un po’ d’aria come tutte le altre persone. Il ritmo serrato del monologo viene inframezzato continuamente da riflessioni di carattere psicologico e filosofico, che arrivano al pubblico quasi traducendone i pensieri più intimi e profondi. Così come Astolfo va sulla Luna a riprendersi il senno, la protagonista della Calamaro viaggia attraverso se stessa per riuscire a ritrovare la propria identità. Perciò, quella di Urania non è solo una riflessione sull’esistenza in senso stretto, ma sui rapporti umani, sui legami e, per opposizione, sulla diffidenza che ci porta ad essere tutti, nel profondo e sinceramente, soli.
«Io sono un agente involontario di transustanziazione.
Trasformo le persone in acqua: quando le conosco sono
sempre così compatte e poi… poi dopo un po’, si sciolgono tutte.»
La voce calda della Sughi porta in scena queste parole con una delicatezza disarmante mentre il suo rapporto con lo spazio circostante è lontanissimo dal reale e viene giocato quasi completamente in assenza di contatto. Inizialmente Urania è chiusa nella sua stanza, poi pare come perdersi in uno spazio aperto che non la allontana affatto dai suoi pensieri; si perde in se stessa in ogni ambiente che abita. Il suo flusso di pensieri segue un andamento quasi schizofrenico che è inarrestabile e che si riflette su tutto ciò che abita la scena. Qui, infatti, si inserisce la figura di Michela Atzeni, donna camaleontica che per tutto lo spettacolo vediamo assumere forme diverse, anche grazie a Daniela Salernitano in funzione di costumista: badante, amica, figlia, confidente. La sua presenza ruota attorno alla Sughi senza mai proferir parola, una coscienza lontana che serve più alla protagonista per specchiarsi e per ritrovare il filo conduttore con se stessa. Quello che fa l’Atzeni, però, è anche abitare lo spazio freddo di Urania con la sola corporalità; la sua presenza, tra ballo e meccanicità, è di una potenza straordinaria. Si muove, infatti, intorno alle cose ed alla protagonista assecondando con il corpo le sue riflessioni e non scostandosi mai dal loro ritmo: tra le due donne, solo per alcuni istanti, pare crearsi una comunicazione di tipo fisico che dall’esterno ha le forme ritmiche di una danza.
«Io non credevo. Non sapevo che i ricordi potessero finire…
Esaurirsi.
Svuotarsi.
Diventare estranei.
Le persone sì… A forza di trattarsi poco e male, si diventa sconosciuti. Ma i miei ricordi… Erano miei. Ero io.
Cosa è successo?»
Così l’ambiente stesso in cui la donna vive diventa satellite delle sue riflessioni, si muove senza arrestarsi mai; e se il tempo siderale, in astronomia, è il tempo delle stelle, quello di Urania è il tempo che, viaggiando nella propria interiorità, la donna impiega a riflettere sulla sua esistenza, fino ad uscirne rinnovata. Un tempo che significa cambiamento, seguendo un moto circolare inarrestabile; moto che viene ripreso da Urania, nelle battute finali del monologo, mentre guida una piccola motocicletta e si muove sul palcoscenico circolarmente. Alle sue spalle, un cosmonauta che pare uscito da un dipinto di Chagall, suona il violoncello.
Lo spazio non ha mai smesso di muoversi in quella calda giornata d’agosto in cui la città si è svuotata, mentre Urania, nel suo microcosmo personale, ha saputo essere in ogni spettatore parte di una coscienza profonda e umana inarrestabile.
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