Avatar – Fuoco e cenere: il cinema che arde, ma che può anche spegnersi
Nessuno, in tempi recenti e futuri, potrà mai negare che il cinema operato dal regista James Cameron sia il cinema della spettacolarità, dei grandi mezzi e della tecnologia asservita al servizio di un arte come macchina complessa e stratificata. Titanic (1997) ne è un fulgido esempio, ma si potrebbe ovviamente retrocedere, e i primi due capitoli del franchise di Avatar ne sono la significativa ed epocale conferma. Avatar – Fuoco e cenere, in sala dal 17 dicembre distribuito da 20th Century Studios, terzo capitolo della saga dei Na’vi, porta avanti la genealogia di Jake Sully espandendo ulteriormente la lore del mondo cameroniano, la sua mitologia e, ovviamente, elevando ulteriormente il discorso cinematografico del regista stesso come messa in atto di un cinema dello stupore e dell’esperienza pura.

In ogni film di Avatar, Cameron cerca di elevarsi costantemente, di superarsi e di ambire al risultato più magniloquente possibile (caratteristica, questa, condivisa anche da Christopher Nolan, non a caso uno dei registi pop per eccellenza insieme a Cameron). Ogni volta è di più, ogni volta è un emozione che supera un’altra, e sarebbe ipocriti non manifestare il proprio apprezzamento per il respiro visivo ed epico che solo pochi autori come James Cameron hanno saputo infondere nella storia del cinema. Come porsi dunque di fronte a questo nuovo capitolo cosmologico del regista?

Siamo sempre su Pandora, sempre fissi su Jake Sully e la sua famiglia, che dopo la perdita del figlio/fratello Neteyam affronta il lutto come meglio può. Ma la guerra contro la “Gente del cielo” non ha mai fine e Jake, Neytiri e il resto del clan Metkayina, seguaci della via dell’acqua, dovranno ingaggiare una lotta acre contro demoni sempre più agguerriti, oltreché che vedersela nuovamente con il colonnello Miles Quaritch, alleato, questa volta, con una nuova pericolosa minaccia: i Na’vi del Popolo della Cenere, i MangKwan, guidati dalla feroce leader Varang, rinnegatrice della dea Eywa.

L’intreccio narrativo di questo terzo capitolo comporta dunque una significativa novità: una tribù di nativi Na’vi che parteggia con il nemico e si impone sugli altri con l’uso della forza bruta e della violenza, desiderosa di prevalere sugli altri clan e di imporre il suo dominio. Nonostante le motivazioni di Varang e il suo rifiuto di Eywa siano le più basiche ed elementari possibili per un villain, Oona Chaplin ci regala un personaggio temibile e affascinante, uno dei migliori visti finora nella saga, arricchendo quindi il mondo di Pandora con una nuova seducente prospettiva.

Le novità però finiscono per ridursi sostanzialmente a ciò. Questo terzo capitolo rimane infatti esplosivo come sempre a livello di immagine, ma anche in questo caso, quei pochi schemi narrativi messi in atto da Cameron nelle prime due pellicole – l’eterno scontro tra indigeni e militari, l’esplorazione della tribù Na’vi di turno, la lotta perenne contro il redivivo Quaritch -, da sempre criticati accanitamente, iniziano a risultare ripetitivi e ridondanti e a lungo andare il fattore novità del 3D iperrealistico, che nel 2009 aveva scosso la settima arte grazie all’impatto del primo film, sta venendo meno. La magia del cinema è e sarà sempre anche nella sua tecnica e nelle incredibili possibilità che comporta la celebrazione dell’immersione audiovisiva, ma al netto di ciò che questo film riracconta non si può rimanere impassibili di fronte a medesime e reiterate scelte narrative. Né si può rimanere indifferenti ad uno stile che, senza nulla togliere alla sua incredibile spettacolarità, sta incominciando a smorzare la sua presa sul pubblico, riproponendo, anche in questo caso, sia come impatto visivo che di attraversamento dell’esperienza filmica, il medesimo giro di valzer.

Dare contro ad Avatar a priori negli ultimi anni è diventata una moda fastidiosa, ma questo non deve impedire a chi fa critica di evidenziare i limiti narrativi di questa saga, senza doversi sentire in colpa per questo. Che poi lo stesso Cameron desideri mantenere una forma narrativa semplice ed essenziale per la sua creatura con l’obiettivo di far risaltare al meglio la controparte tecnologica, resta una sua scelta e come tale va rispettata, nel bene e nel male.

La goduria visiva comunque c’è e resta indiscutibile, oltreché indiscussa, e il film, nella sua durata di tre ore un quarto, coinvolge nel suo spettacolo fino alla fine (impensabile per molti film odierni). Ma per gli obiettivi raggiunti con le storyline di tutti i personaggi messi in campo e per la conclusione – che è una non conclusione per certi versi – di questo terzo film, il percorso di Avatar come saga e franchise cinematografico potrebbe tranquillamente finire qui, prima che le assi del pavimento di Pandora diventino ancora più scricchiolanti di quanto già non lo siano.
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – dedicata al cinema, alle serie e al teatro. Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna.
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista.