True Detective 4 – La lunga notte dell’imbarazzo è giunta finalmente al termine
«My mother used to love oranges»
(Agente Navarro, True Detective 4)
«I don’t like sand»
(Anakin Skywalker, Star Wars Episode II)
Lo spirito dei ghiacci mi è testimone quando dico di aver atteso True Detective 4 con una certa impazienza. L’idea di vedere Jodie Foster impegnata in un misterioso caso immerso nel buio e nel freddo dell’Alaska mi intrigava e prometteva di tornare ai fasti della prima stagione, a cui erano seguite una seconda che potrei definire sperimentale e una terza forse più compassata delle altre ma comunque fedele a quella parolina – “detective” – che è poi il succo di tutta la serie: crimini torbidi, indagini, indizi, prove, interrogatori e così via. Ho fatto grande fatica quindi a non scrivere di questa stagione dopo il terzo o quarto episodio, senza aspettare l’ultimo, ma il blasone mi ha spinto ad attenderne la fine prima di esprimere un giudizio che è risultato inevitabilmente netto. True Detective 4 è la peggiore stagione dell’esperimento iniziato da Nic Pizzolatto nel 2014, lo è per disordine narrativo, incoerenza, inconsistenza, stile registico, scelta e impiego del cast, aspettative disattese e infedeltà al nome che porta.
Scritta e diretta interamente da Issa López – non c’è Nic Pizzolatto, per la prima volta – Night Country si prefissava di essere il negativo della prima stagione, voleva essere buia, fredda e femmina, come affermato dalla stessa showrunner. Tre caratteristiche che la serie è riuscita a fare sue, senza però costruirsi una credibilità. Perché nei cinque episodi che precedono il finale succede poco o niente, il primo barlume di un momento chiave si ha proprio allo scadere del quinto episodio, prima di quello assistiamo a un grande nulla. Sfido chiunque a ricordarsi cosa sia successo nel terzo e quarto episodio, per esempio, dove strane visioni e stentati jumpscare cercano di riportarci alle atmosfere sovrannaturali di un Twin Peaks o un X-Files, senza un grammo di quel fascino e di quella classe. Un horror di serie B, insomma, che continuamente ammicca a una mai precisata linea narrativa lovecraftiana che per parecchi episodi fa a pugni con gli altri generi di questo golem multiforme ideato da López.
C’è il teen drama ribelle rappresentato da Leah, figliastra di Liz Danvers, teenager e ambientalista il cui ruolo è affidato a un’attrice di 27 anni, fuori parte e fuori tempo massimo. C’è il dramma multifamiliare, comunque caratteristico di True Detective, qui veicolato tramite un ripetitivo schema di rabbia e riconciliazioni vecchio già al secondo episodio. C’è l’elemento misterico mai davvero approfondito ma usato per caratterizzare l’ambientazione senza però risultare veramente centrale e quindi interessante: la cultura del popolo indigeno, le sue tradizioni e storie sembrano scuse per riempire gli episodi di sequenze atmosferiche e oniriche accompagnate da una colonna sonora asfissiante, oltre i limiti del videoclip. L’aspetto peggiore di come López sfrutta la cultura locale è rappresentato dall’assurda inconsapevolezza delle due protagoniste. Poliziotte ben radicate che sembrano nate ieri. Non sono a conoscenza dell’esistenza di un sistema di tunnel ghiacciati che si sviluppa per chilometri e chilometri, non conoscono il concetto di night country, che si evince da un dialogo essere conoscenza comune tra i locali, insomma sono due personaggi che non sembrano fare parte di questa ambientazione.
Dietro a questo aspetto si nasconde forse una scrittura un po’ pigra che deve presentare pezzo per pezzo i tasselli di un angolo di mondo piuttosto misconosciuto e lo fa avvalendosi degli interrogativi dei personaggi principali. Sembra però anche un modus operandi che caratterizza tutta la stagione, dove gli snodi narrativi sono pochi e piuttosto casuali, le indagini mai veramente approfondite, e dove si arriva al termine quasi improvvisamente, affidandosi a una serie di spiegoni finali che ricordano una brutta copia di Poirot, Colombo e colleghi. La soluzione del caso è affidata a un indizio da ABC della detection: l’impronta tridattila sulla botola viene rinvenuta dopo un’intuizione stile Jessica Fletcher che Liz Danvers non riesce nemmeno a giustificare («what are we lookin’ for?», «I don’t know»). Il rinvenimento dell’impronta è quindi del tutto casuale, fino a quel punto si naviga nel buio, non esattamente un lavoro da true investigatrici.
Il movente del delitto, poi, è legato a una cervellotica e alquanto comica collaborazione tra un centro di ricerca e una miniera che sta inquinando talmente tanto la zona da riscaldarne il clima e permettere quindi una più comoda perforazione del permafrost da parte di quello stesso centro di ricerca da cui è partita tutta l’indagine: ho dovuto mettere nero su bianco questa svolta nella trama perché altrimenti non ci si crede e non ne resta traccia, invece traccia deve rimanerne, in ogni caso siamo di fronte a una delle storie più assurde mai concepite, una specie di crasi tra la consapevolezza climatica, l’orgoglio locale, il colonialismo, la causa femminista, la corruzione, i grandi centri di ricerca farmaceutica e le loro inquietanti trame. López ha voluto forse unire i puntini di un’intera epoca – quella contemporanea – a costo di perdere stabilità strutturale.
Dunque la chiusura del caso è affidata a una specie di visione matriarcale posticcia in cui una sorellanza di lavoratrici consapevoli si fa giustizia da sola e si spalleggia in ogni situazione. Emblematica di questa visione è la prossemica cringe dello svelamento finale, in cui la sorellanza si evoca poco a poco e riempie la stanza, per poi coprire letteralmente le spalle all’anziana matriarca e costituire un muro di facce torve che pongono le protagoniste di fronte all’unica scelta possibile: finirla a tarallucci e vino. Constatata la loro assoluzione preventiva, le “sorelle” cominciano a sparpagliarsi, non prima di essersi aiutate a vicenda a sparecchiare: un gesto comunicativo dal significato talmente esplicito da risultare, appunto, imbarazzante, esteticamente cringe, anticinematografico, mai realistico.
Da ultimo, il cast. Se i personaggi sono perlopiù macchiette, gli interpreti sono portati a esasperare le emozioni, le espressioni facciali, le movenze. Jodie Foster è relegata al ruolo di madre in lutto perennemente arrabbiata e irrigidita, per lunghi tratti della stagione è costretta, insieme a Kali Reis, a ripeterci che è una dura in tutto e per tutto. L’abbiamo capito al primo episodio, forse non serve ricordarcelo fino all’ultimo, invece è un monotono susseguirsi di facce torve, di fuck fuck fuck shit shit shit christ’s sake. Insomma sono armate e pericolose, mettono in campo le stesse dinamiche del patriarcato violento (maltrattamenti su amanti, sfruttamento dei sottoposti sul lavoro, soluzione violenta dei conflitti) e non paiono rappresentare davvero ciò che difendono. In questa confusione generale l’unico personaggio veramente coerente è anche quello più immobile: Rose Aguineau (Fiona Shaw, che fu zia di Harry Potter) ha le scene migliori e i tratti più interessanti, fa da collante tra mondo sovrannaturale e mondo terreno, quello che deve disfarsi dei cadaveri senza fare troppe domande. Sarebbe stato bello saperne di più.
True Detective 4 verrà ricordata per le belle riprese sui paesaggi dell’Islanda (non è stata girata davvero in Alaska), per le promesse che ci ha fatto e, come sempre, per i titoli di testa, affidati stavolta alla voce di Billie Eilish. Per quanto riguarda la storia, c’è un sussulto grazie al duplice omicidio (per metà parricidio) del quinto episodio, poi finito sostanzialmente in nulla, dal momento che non c’era nessuno a mettere pressione ai protagonisti, e resta un primo episodio che sembrava in parte promettere bene ma nascondeva in sé tutte quelle linee secondarie che da potenziali caratterizzazioni sono diventate il fluido in cui diluire una storia comicamente arzigogolata.
True Detective – Night Country poteva scegliere una sola strada e perseguirla, ha scelto invece il caos e ne ha pagato le conseguenze, sconfessando completamente il proprio buon nome. L’unico modo per dare minimamente valore alle ore che abbiamo passato in compagnia di Danvers e Navarro è lasciarsi andare al nonsense e apprezzarlo, d’altronde Il tempo è un cerchio piatto, ma se piove si scioglie…
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La serie si poteva intitolare: “siamo donne… facciamo un po’ come cazzo ci pare !”
Oppure:
Scienza cattiva, spiritualità buona.
Patriarcato cattivo, matriarcato buono.
Cultura bianca cattiva, cultura nativa buona.
Il tutto recitato con la voce da bambino scemo ovviamente! Anzi no, scusate, bambina !
Insomma, trattasi della solita minestra complottista/woke/spiritualoide che ci ammorba da anni, ormai.
“…sono armate e pericolose, mettono in campo le stesse dinamiche del patriarcato violento (maltrattamenti su amanti, sfruttamento dei sottoposti sul lavoro, soluzione violenta dei conflitti) e non paiono rappresentare davvero ciò che difendono”.
E qui l’autore si sbaglia, difendono proprio quel che è Il femminismo: la stessa cultura discriminatoria, ma declinata al femminile.
Il femminismo non è parità di diritti, non è anti sessismo, è solo la stessa merda del maschilismo, ma ribaltata.
Personaggi maschili duri in quanto uomini, personaggi femminili mediamente sceme, sottomesse, vili, disoneste…. ah no, scusate, quelli erano gli anni ’80 pieni di maschilismo e discriminazione delle donne e delle minoranze.
Oggi invece è:
Personaggi femminili dure in quanto donne, personaggi maschili mediamente scemi, sottomessi, vili, disonesti…
Adesso sì che si ragiona ! Questa è parita !
Nostalgia True detective 1a stagione
Sotto il vestito…niente.
Trama assurda con pseudo misteri, visioni, voci spettrali buttati lì a caso, tanto poi ci pensa chi guarda a dare un’interpretazione. Personaggi tutti negativi o, quando va bene, stereotipati o peggio finti anti stereotipi.
L’unica frase degna di nota “il tempo è un cerchio piatto”, è rubata alla prima serie…
mi sono talmente annoiata che non sono arrivata alla fine. ah, parlavo del tuo articolo. brava jodie foster, cazzuta e femminista