
Carlito’s Way – L’alter ego di Scarface e il crepuscolo del gangster
Se pensiamo a Brian De Palma e Al Pacino ci vengono in mente, senza nemmeno pensarci, due film: prima Scarface e poi Carlito’s Way. Che poi siano effettivamente due e non uno la continuazione dell’altro o, appunto, uno l’altra faccia dell’altro se ne può discutere.
La storia di Carlito Brigante (Al Pacino) sembra decisamente uno dei possibili narrativi non percorsi dal personaggio di Tony Montana. Oppure Carlito può anche essere pensato come uno Scarface più maturo, molto più umano e disilluso, e meno assetato di potere. Come del resto è anche verissimo dire che il primo è decisamente un film degli anni ’80, mentre il secondo è pienamente dentro gli anni ’90, in quel decennio che ha visto il crepuscolo di diversi generi cinematografici.
Carlito’s Way, infatti, è un gangster movie al tramonto con un personaggio che fa di tutto per dismettere i panni del gangster che tanto gli si sono appiccicati addosso. Quella di Carlito è, appunto, la storia di un gangster che non vuole più esserlo e che fa di tutto per scappare da quel gorgo brutale e sanguinario che aveva crivellato inesorabilmente Scarface. Lui non vuole più né il Potere né il Denaro (le due grandi divinità dei gangster), ma una vita tranquilla e anonima su una spiaggia delle Bahamas a fare il noleggiatore di auto con una moglie e un bambino. È un bel cambio di prospettiva.

La storia, infatti, inizia con un miracolo per Carlito Brigante. Condannato a trent’anni di prigione, dopo averne scontati cinque, grazie al lavoro del suo avvocato David Kleinfeld (Sean Penn), riesce ad essere assolto in appello e a rivedere così la libertà, fino a quel momento miraggio impensabile.
Carlito, quindi, esce di prigione e non ha dubbi su quello che vuole fare: stare lontano dai guai e guadagnare il più in fretta possibile i soldi per andare alle Bahamas e tagliare definitivamente i ponti con la sua vita precedente. Tuttavia, il suo passato costantemente bussa alla porta e lo costringe a sporcarsi le mani ancora qualche volta per evitare situazioni spiacevoli. Il maggiore pericolo, col passare del tempo, però, è rappresentato proprio dall’amico David che da salvatore diventa sempre più inesorabilmente una mina vagante e una calamita di problemi.
Proprio il presunto amico lo trascina in mezzo a nuovi giri loschi e in situazioni pericolose in cui vengono pestati i piedi della vendicativa mafia siciliana. Carlito sopporta, resiste, fa tutto quello che può per mostrarsi saldo ma lontano da ogni logica di compromissione o di guerriglia. Mentre nel frattempo ritrova l’amata Gail (Penelope Ann Miller) e con lei programma di fuggire verso il loro paradiso, con la decisa volontà di dimenticare il passato tumultuoso.

Gail non è la dark lady di molti altri gangster movie, ma quasi una figura angelica: appunto l’appiglio che Carlito ha verso il suo personale paradiso. Le parti che coinvolgono i due, quindi, sono le più melodrammatiche del film, quelle più dolci ed emozionali. E lo sono inevitabilmente ancora di più quando in sottofondo c’è un capolavoro straziante come You Are So Beautiful di Joe Cocker.
La vicenda di Carlito diventa quindi una grande quete in un mondo che fatica a riconoscere, in cui si sente smarrito e deve spesso fingere di essere quello che non è più. È un personaggio che ha maturato una consapevolezza che il suo alter ego Tony Montana non ha mai lontanamente sfiorato: che non si può vivere una vita intera sempre al limite. “Prima o poi rimarrai senza benzina. Se non cambi vita, la vita ti abbandonerà”: è questa la frase che gli rimbomba in testa e che è diventata la sua Verità.
La New York cupa di intrighi e l’amico David fanno di tutto per riportarlo nell’abisso, mentre lui fatica per non ricascarci. Il suo è un percorso molto accidentato di risalita dagli inferi che diventa sempre più pericoloso e impervio, così come il ritmo del film aumenta e diventa sempre più incalzante e vorticoso col passare dei minuti finché si raggiunge la sparatoria finale che è un capolavoro di montaggio e regia per la moltiplicazione dei punti di vista, l’intensità drammatica e il gioco di simmetrie.
Alla fine, la vita drena completamente Carlito e gli lascia solo la stanchezza. “Sono stanco amore, sono stanco”. Quella stessa stanchezza che sentiremo risuonare anche nelle parole di Michael Clarke Duncan ne Il miglio verde.

De Palma, con questo film, è pienamente nella sua comfort zone, ma allo stesso tempo sa anche che sta girando un film che è un epitaffio del genere che lo ha reso famoso e nel quale il suo cinema ha dato i migliori frutti. Confeziona alcune scene puramente gangster di mirabile fattura, ma si dimostra ispirato anche quando si lascia andare a una vena più malinconica e nostalgica con una macchina da presa a cui, più volte, piace vorticare intorno ai personaggi per trascinare anche lo spettatore nel loro gorgo.
La sua sinergia con Al Pacino è ancora una volta perfetta nella costruzione di una pellicola che ruota tutta attorno a un personaggio dotato di fortissima forza centripeta che Pacino interpreta quasi col pilota automatico.
Carlito Brigante è chiaramente il fratello maggiore o l’alter ego invecchiato e maturo di Tony Montana. De Palma lo sa benissimo e Carlito’s Way dal primo minuto all’ultimo ha il sapore dolceamaro di un addio a un genere o a un certo modo di interpretare un genere. Il film, infatti, ha la nostalgia degli addii programmati e lo spettatore lo sa fin dall’inizio: non è necessario nasconderlo, sarebbe stato comunque troppo evidente. Carlito’s Way è un ultimo giro che colpisce proprio quando è più fragile e remissivo.
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