
Decision to Leave – Il cinema secondo Park Chan-wook
Park Chan-wook: un nome, una garanzia. Dei tanti nomi provenienti dal lontano Oriente, è uno dei pochi capaci di richiamare in sala orde di cinefili e non, senza neanche il bisogno di vedere il trailer del suo ultimo film, dove, a sorpresa, questa volta non ci sono combattimenti, né spargimenti di sangue, né azione; un biglietto di sola andata verso l’abisso umano, il cui unico lascito è il familiare senso di nostalgia per un film già visto e rivisto mille altre volte, mille anni prima. Qual era quel film? Decision to Leave, come la sua locandina ingiallita e venata, racconta una storia già accaduta e sospesa nelle cristallizzazioni di una memoria antica, porta alla luce reminiscenze cinematografiche sepolte sotto il livello del mare: il mélo alla Wong Kar-wai di In the Mood for Love (2000), la trilogia della vendetta di Park Chan-wook, il canto ammaliante di Hitchcock in cerca di un nuovo Ulisse.

La versione coreana di Vertigo (Alfred Hitchcock, 1958) ha per protagonista Hae-joon (Park Hae-il), il più giovane detective di Busan, la cui integrità morale un bel giorno s’incrina di fronte allo scandaloso sorriso di Seo-rae (Tang Wei), prima e unica indagata per la morte del marito, precipitato incidentalmente, o forse no, dalla cima di un campanile. Ah no, era una montagna. La soluzione, in ogni caso, non tarda ad arrivare, benché fosse dichiarata fin dalla prima comparsa sullo schermo dell’affascinante sospettata. Certo, se siete amanti dei colpi di scena e dei gialli cervellotici, è evidente che questo film non fa per voi.
L’indagine, quella vera, scandaglia le sfumature di un amore nato già maturo, tra un ombroso poliziotto e la sua femme fatale: dai toni cupi di un inquietante noir, a quelli delicati di un intimo melodramma consumato nella ritualità di gesti semplici, fino a toccare la leggerezza della più stereotipata delle commedie romantiche hollywoodiane (il tipo da ombrello sotto la pioggia, per intenderci).

Torniamo a Hae-joon, che è stato definito il più giovane investigatore di Busan, ma non certo il più promettente, visto che dopo neanche mezz’ora vorresti poterlo licenziare; e non tanto perché si è innamorato di un paio di occhi dolci (del resto, chi potrebbe biasimarlo?), ma perché la sua intenzione non è mai stata, neppure per un secondo, quella di risolvere il caso, quanto piuttosto di penetrare quel sorriso, penetrare il mistero di una donna che sfugge alla comprensione e alla quale sembra impossibile accedere, se non in forma mediata, attraverso una fotografia, lo schermo di un computer, le note vocali dello smartwatch o il traduttore del cellulare. Maggiore è lo sforzo di scavalcare le barriere mediali per osservarla da vicino, più Seo-rae trascina lui e te al centro di un abisso profondo quanto il blu del suo appartamento e indecifrabile quanto il motivo della sua carta da parati o il colore del suo vestito.

In fondo, il cinema è sempre stato un gioco di sguardo, qualcuno che vede qualcosa, e l’immagine filmica la sua natura più incarnata. Hitchcock è colui che ha teso il filo tra l’occhio di Norman Bates e l’omicidio di Marion, tra vedere e conoscere, tra voyeurismo e suspence e, nel film Decision to Leave, è una presenza non poi tanto velata. Persino i morti, che siano le ceneri di famiglia o gli occhi spalancati verso il cielo del primo marito, hanno visto e tutt’ora guardano, mediante le soggettive impossibili dell’occhio cinematografico. Hae-joon, invece, sembra affetto da una rara forma non ancora diagnosticata di cecità cronica, al punto da dover ricorrere insistentemente a dispositivi in grado di potenziare la vista: il collirio e il binocolo, come quello che usava James Stuart ne La Finestra sul Cortile (Alfred Hitchcock, 1954). Allora, per il Maestro della Suspence l’impedimento alla risoluzione del presunto omicidio risiedeva nei limiti strettamente fisici dello sguardo: il confine che separava un onesto cittadino dal diventare un uxoricida non era altro che una parete di mattoni tra due finestre aperte sulla vita altrui. Per il detective tormentato di Park Chan-wook, invece, non c’è ostacolo che argini la sua straripante passione. Come la falena, incosciente di sé, s’avvicina alla fiamma, così lui, assuefatto dai propri miti e dalle proprie visioni, s’inoltra in una surrealtà dai contorni sfuocati, in cui sembra così vicino a Seo-rae da poterla toccare, ma non abbastanza per distinguere un pianto da un sogghigno.

Se ci fosse un messaggio in questo caleidoscopio emotivo, sarebbe: «diffida dei sensi, soprattutto quando ti prendi una bella cotta». Il dubbio scettico sulla natura dell’Altro esiste, sembra dire il regista, ma, nel ventunesimo secolo, è sufficiente guardare il cellulare di una persona per rivelarne i segreti. E così lo smartphone diventa, per ben due volte, la prova inoccultabile della colpevolezza della donna, ma anche il depositario di un amore confessato o non confessato che nel frattempo si è già dissolto nella discarica eterea. In un mondo dalla memoria volatile, la tecnologia è l’unico testimone incorruttibile delle azioni compiute e nascoste, delle parole dette e dimenticate.

La parabola melodrammatica di Hae-joon e Seo-rae si chiude così come era iniziata, come la marea che si ritira, al ritmo lento e costante delle sue onde, lasciando dietro si sé un detective abbacinato dai propri sentimenti, cieco fino alla fine come il protagonista di Oldboy (Park Chan-wook, 2003), una donna sepolta in una buca silenziosa quanto la sua anima e un altro caso irrisolto da appendere alla parete del soggiorno, destinato a diventare una nuova e ossessionante causa d’insonnia.
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