
Hulk | Storia di un fraintendimento
Sono stanco capo. Stanco di spiegare ogni volta che compare sul grande schermo che Hulk non è due (o più) persone in uno. Sono stanco di quelli che vedono il gigante di giada solo come una versione più recente del Dr. Jekyll e di Mr. Hyde. Sono stanco di sentir parlare di dicotomie tra lato buono e lato cattivo (neanche Star Wars è così manicheo). Stanco di presunti nerd che scrivono che Hulk «indaga l’aggressività nascosta che è in noi». Sono stanco, ok? E non ho neanche le competenze adeguate per spiegare che la mia stanchezza è causata dai fraintendimenti psicologici sul personaggio, quindi lascerò parlare un “vero” terapeuta, o almeno una sua ragionevole proiezione fantastica che ha avuto a che fare per anni con il paziente Hulk: il Dr. Leonard Samson.

Però va bene, c’era Stan Lee che parlava di “doppia natura” del personaggio; c’era la sigla della serie anni ‘70 (quella con Lou Ferrigno, per intenderci) che terminava con l’immagine duale di Hulk e David (perché sì, nella serie TV si chiamava David e non Bruce perché Bruce suonava ai produttori della serie “troppo gay”); c’è stato Edward Norton prima e Mark Ruffalo dopo che hanno caricato (quando non caricaturato) gli aspetti più fortemente antitetici del personaggio. Eppure in mezzo a tutto questo ci stanno due signori, Ang Lee ed Eric Bana, che hanno provato a fare qualcosa di radicalmente diverso e ci sono pure riusciti bene. Solo che nessuno li aveva capiti allora e chissà che non sia troppo tardi adesso. In pratica, era il 2003, in Italia si pagava ormai con l’euro già da un anno, la PS2 era la console più venduta, Tonio Cartonio viveva ancora nel Fantabosco e il mondo tra due X-Men e uno Spider-Man (e due Blade a volerla dire tutta) era già in odore di cinema Marvel, sebbene nessuno poteva aspettarsi il futuro che da lì a cinque anni avrebbe iniziato ad avverarsi. E allora il 15 giugno di venti anni fa uscì al cinema quell’esperimento riuscito dell’Hulk di Ang Lee. Era un film commerciale? Decisamente. Non a caso il primo ricordo che ho di quel film è la pubblicità della Linea Scuola Giochi Preziosi. Poi però quando mi arrivò la VHS del film mi trovai di fronte a una realtà decisamente meno giocattolosa e commerciale.
L’Hulk di Ang Lee è un film esigente. Esige cioè che il pubblico sia un po’ più scolarizzato della media. Non un pubblico impegnato, ma che sia disposto ad impegnarsi durante la visione per familiarizzare con una storia stratificata. E lo strato più superficiale, che è certamente quello delle botte e delle scazzotate tra mostri, è anche il più sottile, forse non il meno interessante, ma di certo quello un po’ meno ricco di sfumature. Ma proprio come avviene con le cipolle, una volta tolta la patina sottile che le riveste possiamo tranquillamente scavare negli strati più profondi ed estrarre, non senza qualche lacrima, la polpa. E sì, proprio come per le cipolle, anche nell’Hulk di Ang Lee qualche lacrima mentre si scava in profondità è d’obbligo. A chi oggi urla alla standardizzazione Marvel, alla rodata macchina sforna soldi che sacrifica tutto per battere cassa, rispondo (anche) con quel primo Hulk cinematografico profondamente incompreso. Perché l’Hulk di Ang Lee non è una storia di un lato buono e di un lato oscuro, bensì la storia di una persona sola. Che la si chiami Bruce oppure Hulk è poco importante, l’idea di uno nutre quella dell’altro. In ogni caso è una storia di emersione, di qualcosa sotto la pelle che urla per uscire e non è un caso che la prima manifestazione visiva di quel “qualcosa” avvenga proprio nei primi minuti del film, sotto forma di rash cutaneo di uno strano colore verde. Non è un altro sé, è un pezzo di sé che vuole uscire e senza il quale saremmo inevitabilmente incompleti.

Scavare per emergere ed emergere per scavare di nuovo. Il doppio binario sul quale si articola il film è solo in apparenza un’alternanza temporale. In realtà è una vera e propria seduta psicanalitica nella quale ci scontriamo col vissuto quotidiano e istintivo di Bruce, il tutto accompagnato da un alienante tema musicale dell’immenso Danny Elfman che sembra descrivere un’inesorabile discesa nel subconscio. Di fatto Hulk è una storia di crescita sia fisica che psicofisica. Il regista ci tiene a farci vedere come la trasformazione del protagonista non sia mai uniforme e istantanea ma conosca varie fasi e, proprio come un bozzo, la sua stazza cresce in base ai traumi che riceve. Le dimensioni che raggiunge nella prima parte di film sono poco di più della metà di quelle che assume verso la fine. È vero che forse la trama è tutt’altro che lineare, ma ciò nondimeno è assolutamente progressiva.
Eric Bana regala poi l’interpretazione perfetta di un individuo tentato dai propri istinti distruttivi. «Un sogno di rabbia, potere e libertà», per usare le sue parole. Perché sì, c’è tutto questo nel suo Hulk, un superamento dei limiti imposti dalla condizione umana attraverso la rabbia che alimenta un potere con il quale ottenere la libertà. Desiderio questo che è alla base delle motivazioni, prima nobili poi perverse del villain, il padre David interpretato da Nick Nolte, lui sì una moderna versione di un altro eroe della letteratura gotica, il Dr. Frankenstein. Non tanto perché ha creato un mostro, ma perché è mostruoso il suo agire, dall’omicidio dell’amata moglie al tentativo di divorare, quasi fosse un moderno Crono, il figlio dentro di sé. Su Nolte inoltre poggia tutta la componente horror del film, che certo è solo una piccola componente non preponderante, ma che ci ricorda che Hulk è una storia di mostri e orrori prima dentro di noi e poi fuori (si vedano i terrificanti mastini infernali di metà film).

A una convincente, ma forse monodimensionale, Betty Ross di Jennifer Connely si contrappone l’altra grande nemesi di Hulk, il generale Thaddeus Thunderbolt Ross, qui interpretato da un grande Sam Elliott nelle doppie vesti di padre e uomo di guerra. Le sequenze più eccitanti sono senza dubbio quelle che vede coinvolti i due nemici e, grazie a un’intuizione di regia che oggi sarebbe salutata come avanguardista, il film ci mette di fronte a un montaggio delle scene fumettistico alla Kirby, con panelli che si aprono e si chiudono mostrandoci talvolta lo stesso evento da più punti di vista. Avanguardia, appunto, ma era il 2003 e il mondo aveva frainteso.
Non che il film sia scevro di difetti, uno su tutti uno scontro finale decisamente troppo affrettato e risolto alla svelta, ma davvero l’Hulk di Ang Lee merita l’oblio? A riguardarlo oggi il film sembra essere la risposta a chi vuole un Hulk più serio è drammatico, ma anche un cinecomic “diverso” dalla solita pappetta riscaldata. Hulk non è un film da rivalutare, ma da riguardare ogni volta che si cercano idee nuove. È un grande fraintendimento tra un pubblico che cercava un film estivo da condividere coi mocciosi e un regista profondo, poetico e sinceramente appassionato. A vent’anni dalla sua uscita nelle sale potreste stupirvi nello scoprire quanto poco questo film rispetto ad altri dello stesso periodo e genere sia invecchiato. Quanto in profondità questo abbia scavato nella storia editoriale del personaggio, mettendo in scena sostanzialmente le tematiche e gli elementi dello storico ciclo di Hulk scritto dal grande Peter David. Ma forse la paura di essere tacciati nuovamente di inutile ed eccessiva profondità frena i Marvel Studios e la Universal dal riproporre una storia così matura del Gigante di Giada. Eppure non lo si può ignorare del tutto quel film e non l’hanno fatto neanche i Marvel Studios: il reboot del 2008 infatti inizia non molto lontano da dove finiva il precedente, in America Latina con un Bruce in fuga dal mondo.

«Non era difficile trovarti»
«Sì, invece»
Forse il senso del film sta tutto in questo scambio.
È lecito sperare di rivedere questo Hulk da qualche parte? Ad oggi l’unico sequel ufficiale (ma canonico?) del film è il videogioco di Radical Entertainment dello stesso anno della pellicola il quale, come spesso accade coi prodotti derivati da film, propone una storia più fumettosa e meno profonda, senza comunque rinunciare del tutto alla drammaticità originaria. Ma siamo anche in un’era di narrazioni multiversali e allora forse la speranza non è perduta. Sarebbe bello se nei prossimi Avengers la realtà dell’Hulk del 2003 – Terra 400083 – venisse riproposta per ambientare la distopica realtà del Futuro Imperfetto sempre di Peter David. Ad oggi però poco o niente rimane di questo film se non un ricordo un po’ nostalgico di chi all’epoca lo vide per la prima volta e si sentiva magari in difetto per non averlo capito appieno. Facciamo così: ogni volta che un film Marvel vi delude, tornate a quel 2003. Riscoprirete un modo nuovo di intendere la mitologia supereroistica. E se neanche l’Hulk di Ang Lee vi sorprende allora vi meritate Venom e Morbius.
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