
Mamma, ho visto “Evil Dead Rise”
Un signore entra in un bar con un coltello conficcato nella schiena. Ordina un caffè e il barista, non senza un po’ di sconcerto, lo serve. Dopo aver pagato, l’accoltellato si dirige verso l’uscita del locale come se niente fosse, al ché il barista lo ferma e gli dice «ma lei ha un coltello conficcato nella schiena!» «Lo so», risponde l’interessato «e non le fa male?» «Solo quando rido», risponde il signore. Questa facezia è la sintesi perfetta dell’“effetto Raimi”, ovvero far ribrezzo quando vorrebbe far ridere e far ridere quando vuol fare ribrezzo. Detta così sembra la descrizione di un cineasta che non sa fare il suo lavoro, ma permettetemi di spiegarmi.

Dunque c’è questo signore, tale Lee Cronin, irlandese con una breve ma più che discreta filmografia che si attira le simpatie e le attenzioni di Raimi. Questo dinamico duo si prefigge il compito di rivitalizzare il franchise Evil Dead, a 10 anni dal remake di Fede Alvarez e 5 dall’a puntata’episodio finale della fenomenale serie Ash vs Evil Dead. Poteva essere un altro remake fedele all’originale con la firma del regista irlandese oppure una storia completamente nuova che si limitasse ad omaggiare il maestro dell’horror. Cronin riesce in un’impresa impossibile: realizzare un film che è entrambe le cose.

Facciamo un ulteriore passo indietro (non voletemene) e chiediamoci cosa profondamente sia tutta la saga di Evil Dead, oltre cioè a un termine di paragone per qualunque cosa voglia definirsi horror. Una possibile, e di fatto confermata, chiave di lettura dell’intera saga è la descrizione in chiave parodica (far ridere appunto) e horror (fare ribrezzo) delle persone sotto acidi e/o funghi allucinogeni. Pensateci: cinque ragazzi si preparano a trascorrere un weekend in una casa tra i boschi isolati dalla civiltà. A un certo punto uno di loro estrae dalla tasca “qualcosa per sballarsi” ed è qui che inizia il casino. Ognuno vede ciò che la sua mente alterata produce, siano essi mostri, parti di casa che parlano e si animano o alberi violentatori. Un leitmotiv questo che, a eccezione del terzo film, ritorna più o meno in tutti gli altri capitoli. Nel remake al centro delle vicende c’è una ragazza che cerca disperatamente di disintossicarsi, mentre il catalizzatore degli eventi della serie TV è letteralmente un Ash sotto stupefacenti che recupera il Necronomicon.
Evil Dead quindi attraverso la paura e l’eccesso visivo che solo il cinema può permettere, esorcizza proprio la paura degli eccessi, dandole carne e sangue – tanto sangue – , in altre parole, sostanza. Un ricettacolo degli incubi dei genitori per i propri figli: “e se finisse con le compagnie sbagliate? E se si unisse a qualche setta? E se si drogasse?” Nel 2023 arriva quindi Lee Cronin che sotto l’egida del Maestro produce un nuovo capitolo che ribalta i ruoli, pur mantenendone inalterati gli equilibri tra vittime e carnefici. Non più giovani ragazzi e i loro eccessi (o vecchi boomer che si credono ancora giovani come nella serie TV), ma degli adulti, presumibilmente responsabili e giudiziosi, che all’ennesima disobbedienza di un figlio perdono il senno e cedono all’eccesso.

“E se mia madre un giorno perdesse la ragione? E se a un certo punto non ci volesse più bene? E se fossimo troppo per lei?” Sia chiaro che il film non prende spunto né riprende (almeno dichiaratamente) reali e tragici fatti di cronaca nera, tuttavia spiattella (è proprio il caso di dirlo) un incubo atavico per il genere umano e connaturato all’intera saga di Evil Dead: e se la persona che dovrebbe amarti diventasse (apparentemente) senza motivo il tuo carnefice? Ci vuole l’espressività mastodontica (e diciamolo “mastodentale”) di una spettacolare Alyssa Sutherland per decostruire (leggasi “smembrare”) efficacemente una figura amorevole come la sua Ellie, che fino all’ultimo prega la sorella di fare in modo che il male non prenda i suoi figli. A questo punto, una volta che abbiamo empatizzato a sufficienza con la situazione domestica, il gioco è per così dire fatto. La discesa nella follia è coadiuvata da una regia che valorizza il (det)taglio sui corpi mutilati, continuando la storica tradizione di Raimi di irretire tutti i sensi tramite la sola visione (un esempio? «Zia, ho degli insetti schifosi nella pancia»).

Evil Dead è un tritacarne culturale. Una sorta di infernale macchinario macinatore nel quale inserire tutte le nostre certezze per ammirarne la la lenta dissoluzione. In questo, il franchise di Raimi si distingue da altri caposaldi del genere horror, nell’essere non solo una commistione di paura ma anche e sopratutto una gustosa macchina della dissacranza e cosa c’è di più sacro, sia per i laici che per i fedeli, dei propri corpi? Forse solo i legami che si instaurano tra gli abitanti di corpi, legami anch’essi destinati a essere mutilati. Cronin “urla” questa dissacranza (la firma irlandese la si sente tutta nell’urlo banshee dell’indemoniata Ellie), rendendo la morte un disgustoso fenomeno vitale e la pace finale l’unica possibilità per la vita. È tutto ribaltato in questo film, anche l’ordine temporale. L’unica blasfemia che completerebbe questo film è vederlo con le proprie madri, giusto per ammirarne il disgusto o lo sconcerto. O almeno raccontarglielo come se si fosse fatta una bravata probita «Mamma ho visto Evil Dead Rise»
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