
Andare a vedere “Ant-Man: Quantumania” per capire cosa sono i maranza
Questo racconto inizia dalla fine, per l’esattezza dai titoli di coda di Ant-Man & the Wasp: Quantumania. Sono andato a vedere l’ultima fatica di Peyton Reed in un multisala della provincia di Milano, notoriamente habitat naturale e territorio di caccia della specie nota come “maranza”. Avviene che durante i titoli di coda, un esemplare di suddetta specie si alzi dal posto e chieda al resto della sala «oh, ma a quanti è piaciuto?». Intuendo di essere con ogni probabilità in netta minoranza, alzo lesto entrambe le mani, genuinamente convinto che questo mio gesto avrebbe fatto una qualche differenza nel conteggio voti. Le altre mani che si alzano sono appena tre, escluse le mie. «A quanti non è piaciuto?!» la domanda successiva è emessa con un latrato che tradisce l’appartenenza dell’esemplare al secondo partito, così come la speranza di aggregare più elementi al proprio branco (è risaputo che i maranza si muovano e profilino in branco), quasi a dire «non sono l’unico stronzo al quale non è piaciuto, vero?». In effetti le mani che si alzano sono un po’ di più rispetto a prima, ma comunque non abbastanza per poter parlare di plebiscito. I veri vincitori, come in tutte le ultime elezioni in Italia, sono gli astenuti. Ma al maranza va bene così, anche una vittoria per pochi voti è pur sempre una manifesta superiorità. Questo risultato non mi ha sorpreso. Perché se c’è qualcosa che ho capito andando al cinema a vedere Quantumania è proprio cosa siano i maranza e perché la Marvel non parli a loro. Ma andiamo con ordine.

«Vai senza aspettative» mi aveva detto un amico. «Mi è piaciuto perché io vado al cinema per divertirmi» mi ha detto un altro. «48%» riporta un noto aggregatore di recensioni a forma di pomodoro. E allora non sono andato in sala con basse aspettative ma con veri e propri pregiudizi al ribasso (sbagliando? Ho già falsato il risultato così?). Insomma ho fatto di tutto, o quantomeno ciò che era nelle mie possibilità, per non farmi piacere il terzo Ant-Man, davvero. Mi sono sforzato di individuare pattern abusati, sbavature vistose di trama (tutte cose presenti), o una eventuale comicità pesante alla Waititi (ecco questa no). Ma non ce l’ho fatta. Il film sta in piedi. Non solo ha retto le mie aspettative artefatte, ma le ha pure superate e surclassate. Non parliamo di un capolavoro, ma da quando tutti i film belli o molto belli devono essere per forza dei capolavori? Senza contare che la parola “capolavoro” è abusata in primis da chi giudica e recensisce. E non mi soffermerò neanche sulla retorica «non è perfetto ma è comunque bello» perché è una retorica paracula.

Ant-Man & the Wasp: Quantumania è bello e ha dei difetti, probabilmente anche vistosi. Uno su tutti la indiscutibile disonestà del titolo che promette un film dedicato sia alla formica “papà” – Paul Rudd – che alla compagna vespa – Evangeline Lilly – ma che in realtà si concentra tanto, per non dire solo, sul primo e al massimo su la di lui figlia – Kathryn Newton. Insomma, se il film si fosse chiamato Ant-Man: Quantumania ne avrebbe guadagnato senza dubbio in onestà. La Newton poi non brilla ancora per portata drammatica, ma ciò che si apprezza è la scrittura, che la salva dall’essere dimenticabile regalandoci degli snodi narrativi simbolici sulla crescita invero ben riusciti («Siamo entrambi giganti ora»). L’impianto della storia, come nel più classico dei film Marvel Studios, assolve a due funzioni: raccontare la storia del personaggio principale e spianare la strada al prossimo grande cattivo di turno. Non ci giriamo molto intorno, Jonathan Majors è un attorone in tutti i sensi; un colosso dalla presenza scenica imponente e totalizzante. Forse pure troppo. Si vede chiaramente infatti che Majors non è sintonizzato sulle stesse frequenze del MCU interconnesso, ma solo sulle proprie e si ha conferma di ciò nelle sue dichiarazioni a proposito dei suoi film, che Majors non guarda mai. Majors ha tutte le carte in regola per essere il nuovo grande villain del MCU e probabilmente in Quantumania sta pure tanto stretto.
Chi invece sta benissimo nel film è M.O.D.O.K.: Corey Stoll torna dal primo Ant-Man per completare il suo ciclo nel MCU con un ruolo che sfrutta intelligentemente la sua presenza (effettivamente ridicola) nel film inaugurale e che qui trova compimento in un character che è un inno alla ridicolaggine e al brutto. Insomma, M.O.D.O.K. è il Tersite dell’Odissea nell’universo quantico. Un essere brutto, orrendo, fastidioso, stereotipato e la cui presenza è funzionale a rendere più belli gli altri personaggi. Che è esattamente ciò che M.O.D.O.K. è nei fumetti. Non si poteva chiedere di più. I maliziosi diranno che il “di più” sarebbe stato il “di meno”, ovvero togliere proprio M.O.D.O.K.. Peccato che M.O.D.O.K. porti in sé il senso del film tutto, ovvero ridere dell’assurdità anche quando essa è minacciosa. Un fil rouge, quello dell’umorismo, portato avanti non solo da M.O.D.O.K. ma anche da personaggi apparentemente secondari come Hank Pym (Micheal Douglas a suo agio come non mai nel ruolo dell’esploratore/scienziato/antropologo) e dal cameo di Bill Murray. Al maranza però non va detto come e quando ridere. Il maranza ride da sé di qualunque cosa sia spacciata come seriosa e impostata. Quantumania invece precede lo spettatore anche solo di pochi attimi nei momenti comici, forse anche leziosamente, quasi a volerlo istruire ed è certamente questo ciò che dà fastidio a una certa critica e a un certo pubblico (ovviamente dobbiamo credere quello che non ha votato su Rotten Tomatoes).

Cosa è Quantumania in ultima istanza? Una parodia citazionista di Star Wars? Una copia imbellettata e aggiornata di Sharkboy e Lavagirl? L’ennesimo passo falso dei Marvel Studios? Personalmente mi piace pensare che Quantumania sia un po’ una carta d’identità del MCU tutto, nel bene e nel male, in particolare la parte del documento d’identità che tutti scalpitiamo per vedere o mostrare, salvo poi esserne puntualmente imbarazzati: la foto. Quantumania è esattamente la foto di un MCU e dei Marvel Studios in tutta la loro freschezza, intraprendenza, leggerezza, ma anche e soprattutto contraddizioni (uno studio che strizza l’occhio al socialismo salvo poi venire accusato dagli addetti ai lavori di essere sfruttaori), scivoloni, superficialità e, diciamolo pure, un po’ di autocompiacimento. A ben guardare, potrebbe benissimo essere anche il profilo di Paul Rudd.
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