
Conversando con Sirk – Lo specchio della vita di Jon Halliday
In un’ideale classifica dei più grandi intervistatori della storia della critica cinematografica, Jon Halliday occuperebbe con certezza uno dei primi posti, e non solo per il suo notissimo libro-intervista con Pier Paolo Pasolini, Pasolini on Pasolini, realizzato in pieno Sessantotto mentre P.P.P. era alle prese con il montaggio di Teorema: altrettanto se non ancora più importante per l’estensione temporale abbracciata dall’intervista e la molteplicità di incontri e personalità rievocate, era il suo Sirk on Sirk, pubblicato nel 1971 e frutto di un’ancor più lunga conversazione con Douglas Sirk, regista tedesco trapiantato per decenni ad Hollywood, ma ormai “andato in pensione” per sua scelta e raggiunto da Halliday nel buen retiro in Svizzera.
A differenza del libro su Pasolini, Sirk on Sirk era rimasto inedito in Italia: finalmente il Saggiatore ha rimediato a quest’assenza editoriale, e presenta il libro-intervista in traduzione italiana accompagnato da un’introduzione del curatore Andrea Inzerillo, da una postfazione di Goffredo Fofi e da un appassionato intervento che Rainer Werner Fassbinder scrisse per omaggiare il cinema di Sirk. Il titolo italiano è diventato Lo specchio della vita, dal titolo di uno dei più celebri melodrammi di Sirk, datato 1959 – in originale, Imitation of Life.

Jon Halliday era per certi versi l’intervistatore ideale per una figura come quella di Sirk, al secolo Hans Detlef Sierck e noto all’inizio della sua carriera in Germania come Detlef Sierck prima della fuga a Hollywood a seguito dell’avvento del nazismo. Pur essendo noto per le interviste con due dei maggiori cineasti del tempo della sua giovinezza, Halliday, classe 1939 e ancora in vita, era di formazione uno storico, e un altro dei suoi titoli più venduti è una controversa biografia di Mao. Se il libro-intervista con Pasolini – pubblicato da Guanda in Italia – abbracciava tutto sommato un intervallo di tempo e di spazio piuttosto limitato, intervistando il settantenne Douglas Sirk il buon Halliday aveva di fronte una figura biograficamente ancora più sui generis, che si era visto passare davanti agli occhi non solo molti più decenni di storia occidentale, ma anche gran parte dei personaggi più rappresentativi del suo tempo, tanto in Germania quanto negli States.
Uno dei maggiori motivi di interesse di questa autobiografia “a più voci” sta sicuramente la ricostruzione, innanzitutto emotiva, del periodo della scalata al potere di Hitler in Germania, raccontata da Sirk come una situazione di crescente paranoia e costante rischio di delazione. Sirk si trovava in una posizione piuttosto difficile, non solo per le sue idee politiche e artistiche, ma anche per il fatto di aver sposato in seconde nozze un’ebrea: nella Germania degli anni trenta si trovava talvolta ad essere boicottato per il suo lavoro registico, a volte apprezzato da gerarchi nazisti che ammettevano davanti a lui di non essere interessati al suo personale credo politico o alla sua situazione famigliare. Quando venne proiettato ad Adolf Hitler in persona il suo film Lago d’argento, Sirk, scoperto che al Führer era piaciuta l’opera, si sentì “nello stesso tempo sollevato e profondamente depresso: doveva essere un brutto film se era piaciuto a un uomo come quello”. Anche quando Sirk avventurosamente abbandonò la Germania assieme alla moglie, attraversando rapidamente l’Italia, la Svizzera, la Francia e l’Olanda prima di partire definitivamente per gli Stati Uniti, Goebbels in persona provò a convincerlo a tornare per continuare a servire il Reich con il suo talento registico, assicurandogli che avrebbero fatto passare sotto silenzio il suo tentativo di espatrio.
Nonostante la fama che aveva in patria, l’approdo di Sirk ad Hollywood fu tutt’altro che facile: non solo dovette affrontare, in un’età non giovanissima, una nuova, “seconda” gavetta alla regia o al tavolo di scrittura di quelli che lui stesso presentava come B-movies; nei momenti più difficili dei primi anni da espatriato si trovò addirittura a gestire un allevamento di polli, un’attività a contatto con la terra che non gli dispiaceva, prima di poter rimettere mano alla macchina da presa grazie a un curioso progetto sui vigneti dei frati francescani della Napa Valley in California, mentre in Europa impazzava la Seconda Guerra Mondiale. Poi ci fu l’approdo definitivo ad Hollywood, e si affermò il Sirk che tutti conosciamo.

“Ricordo che a Hollywood mi dicevano «Doug, non essere arty». Era un termine che non avevo mai sentito prima, perché non esiste in nessuna altra lingua – neanche il concetto, che io sappia, esiste in nessun’altra cultura. E fare bei film non ha niente a che vedere con l’essere arty, sono completamente d’accordo”. Il racconto che Sirk fa di Hollywood non è né idealizzato né demoniaco: è un universo in cui il regista tedesco ha saputo muoversi con un notevole senso pratico, benché conscio dei numerosi compromessi artistici a cui ciascuno dei suoi film fu a vari livelli costretto. Con un particolare senso dell’equilibrio emotivo del racconto – “sconvolgere le persone non serve a niente”, assicura ad Halliday, “in un film come in uno spettacolo teatrale, regista e attori devono rendere enigmatico l’animo dei personaggi” – tra la seconda metà degli anni quaranta e gli anni cinquanta Sirk riuscì ad imporsi come uno dei migliori registi in circolazione ad Hollywood, realizzando acclamati melodrammi come Magnifica ossessione, La campana del convento, Come le foglie al vento, Interludio, Il trapezio della vita e Lo specchio della vita, da cui l’edizione italiana del libro di Halliday prende il nome.
A lungo la critica non diede grande peso all’opera filmica di Sirk, giudicando i melodrammi troppo commerciali: ma dietro alla sua indubbia capacità di affabulazione narrativa che fruttò buoni se non ottimi incassi al botteghino a gran parte dei suoi film americani, Douglas Sirk era un uomo coltissimo. Non per nulla dialogando con Halliday gli propone una vera e propria teoria del melodramma, che attinge fin dalle radici greche del termine: “il termine melodramma ha ormai perso gran parte del suo significato; gli spettatori tendono a dimenticare il melos, la musica. Io non sono americano, e sono arrivato al folklore del melodramma americano a partire da un mondo follemente lontano da esso. Nell’accezione americana, invece, il melodramma è l’archetipo di un genere cinematografico strettamente legato al dramma“, e unicamente ad esso. Con questa autocoscienza storica e letteraria del passato del suo genere d’elezione Sirk si destreggiò tra le star della Hollywood del suo tempo affermandosi come un ottimo director anche per le interpretazioni che riusciva a trarre fuori dai suoi interpreti, svolgendo in modo determinante all’ascesa di Rock Hudson al rango di star, e lavorando con divi e dive del calibro di Lauren Bacall, Joan Bennett, Barbara Stanwyck, Jack Palance e Dorothy Malone.

A parte Hudson, sul quale Sirk confidò a Halliday diversi aspetti personali con la promessa di rendere pubblica quella parte dell’intervista solo dopo la morte degli interessati, in questo libro-intervista non ci si dilunga molto sugli attori. Il vero interesse, tanto nelle domande di Halliday quanto nelle risposte di Sirk, sembra essere negli scrittori che il regista tedesco nel corso della sua lunga vita lesse e spesso frequentò. Sirk fu amico di Erich Maria Remarque, l’autore di Niente di nuovo sul fronte occidentale e di Tempo di vivere, tempo di morire da cui il regista trasse il suo penultimo film; e incrociò Max Brod, l’amico e patron di Kafka a cui si dovettero le prime controverse edizioni dei romanzi postumi dello scrittore praghese. Sirk sognò di adattare per il grande schermo Una risata nel buio di Vladimir Nabokov, diversi anni prima che arrivasse Stanley Kubrick con la sua Lolita, e trasse anche un film da Pilone di William Faulkner, reintitolandolo The Tarnished Angels – e, di comune accordo con lo scrittore, non ci fu nessuna collaborazione da parte di Faulkner alla sceneggiatura. Questa, a dire il vero, fu una caratteristica piuttosto costante nella carriera del Sirk regista: l’unico scrittore importante con cui Sirk volle tentare una collaborazione fu Eugène Ionescu, leggendario drammaturgo romeno trapiantato in Francia, per un progetto sulla vita del pittore Utrillo, ma a causa del peggioramento delle sue condizioni di salute Sirk fu costretto ad abbandonare il cinema e a dedicarsi solo al teatro negli ultimi diciotto anni della sua vita.
Proprio perché appassionato di letteratura, Sirk teneva chiarissima in mente la distinzione tra il medium cinematografico e il registro letterario: conversando con Halliday, Sirk teorizza a più riprese su questo diatinguo. “Un regista è uno che piega le storie”: di conseguenza, “le storie non sono poi così fondamentali”, perché “qualsiasi storia ti lascia sempre la possibilità di esprimere qualcosa che vada al di là della trama o del suo valore letterario”. Sirk argomenta l’affermazione paragonando i due diversi film degli anni trenta con Greta Garbo che adattavano rispettivamente l’Anna Karenina di Tolstoj e La signora delle camelie di Dumas Jr., o La regola del gioco di Jean Renoir con il Moby Dick di Herman Melville. “La storia di minor valore”, concludeva Sirk, “è di gran lunga il miglior materiale per un film – e Dio solo sa quanto ammiri Melville, il più grande scrittore della letteratura americana”. Eppure proprio sul set di The Tarnished Angels Douglas Sirk si spinse a fare il suo gesto più letterario, quello di leggere ai due protagonisti dei versi del futuro premio Nobel T.S. Eliot: a Rock Hudson un passaggio de Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock, a Robert Stack direttamente da La terra desolata.
Certo sarebbe stato interessante vedere cosa avrebbe realizzato Douglas Sirk al cinema negli ultimi anni della sua vita, se il suo fisico avesse retto qualche anno ancora: Lo specchio della vita, quello che rimase il suo ultimo film per il grande schermo seguito solo da qualche cortometraggio, era stato anche il più grande successo della sua intera carriera. Anticipando per certi versi la mossa che Terrence Malick avrebbe ripetuto vent’anni dopo, riparandosi anche lui in Europa, Sirk abbandonò Hollywood. Avrebbe voluto girare, in Francia o in un secondo momento anche nella Hollywood degli anni sessanta in cui avvertiva i germi del cambiamento poi concretizzatosi con la New Hollywood, dei film con uno stile nuovo: Sirk confessa ad Halliday di aver sognato di “sperimentare, sviluppare uno stile completamente nuovo, adatto alla nuova epoca che vedevo avvicinarsi”, conscio del fatto che “c’è in realtà un fascino innegabile in un posto orrendo come Hollywood: la gioia di essere di nuovo su un set, di tenere le redini di un film, di lottare contro storie e circostanze impossibili”; ma alla fine Sirk decise ugualmente di “tenere fede alla decisione di considerare la mia malattia come qualcosa di più di una coincidenza”.

Sirk morì nel 1987, facendo in tempo a rivedere una generale rivalutazione critica del suo lavoro: oltre al libro di Halliday del 1971, arrivarono anche i reiterati omaggi di Fassbinder, incluso il testo Imitation of Life. Sul cinema di Douglas Sirk adesso incluso in appendice al volume di Halliday; Fassbinder e Sirk strinsero anche una curiosa collaborazione creativa con Burbon Street Blues, in cui Sirk faceva da regista e Fassbinder ricopriva il ruolo di attore. Proprio quest’anno il Festival del Cinema di Locarno ha programmato una retrospettiva di film restaurati di Douglas Sirk, e un regista americano del calibro di Todd Haynes, fresco della presentazione a Venezia del nuovo Tàr con Cate Blanchett protagonista, lungo tutto il corso della sua carriera si è richiamato all’insegnamento di Sirk in fatto di gestione del melo-dramma, di sensibilità registica e di direzione degli attori.
Si potrebbe ancora dire molto, sull’influenza che la lezione di Sirk ha avuto tanto sul cinema europeo, quanto, e ancor di più, sulla tradizione drama dell’industria hollywoodiana, ma questo ci potrebbe al di fuori dei confini del libro di Halliday che pure va preso nella sua specificità critica. E il passaggio più toccante, più sorprendente e forse più rivelatorio di tutto il libro-intervista, quello più cinematografico se vogliamo, e senza dubbio quello su cui vale la pena concludere, è questo:
“Ricordo che una volta partecipai a una vendita di libri a casa di un emigrato tedesco che era appena molto a Hollywood. Nessuno a Hollywood si interessava di libri. L’atteggiamento tipico era: «Se se ne può trarre un film ok, ma altrimenti…». Naturalmente non c’era quasi nessuno. Ero praticamente solo in una stanza piena di libri, c’era soltanto una ragazza molto bella che non conoscevo e che stava guardando i libri. A un certo punto sentii la sua voce che mi chiedeva: «Questo Bertolt Brecht è uno scrittore interessante?». Era Marilyn Monroe. Era una domanda alla quale era difficile rispondere“.
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