
Sul Teatro (dei Gordi) senza esagerare – Intervista a Riccardo Pippa
La Compagnia Teatro dei Gordi (Premio Hystrio-Iceberg 2019; Premio ANCT 2020 – Premio Nazionale della Critica Teatrale) sarà in scena al Teatro Gerolamo di Milano da venerdì 7 a domenica 9 ottobre con Sulla morte senza esagerare. Lo spettacolo, omaggio alla poetessa polacca Wisława Szymborska, affronta il tema in chiave ironica attraverso un uso non convenzionale di maschere contemporanee: figure familiari, presenti, che parlano – senza parole – di incontri, ultimi istanti, partenze, ritorni, occasioni mancate, veglie e addii.
Quello proposto dai Gordi è un teatro che per lo più fa a meno della parola (ne abbiamo parlato nella nostra rubrica Show, don’t tell #4 | Il linguaggio: i Gordi e il terreno fertile). Tanto Sulla morte senza esagerare – spettacolo vincitore, tra gli altri, del premio Scintille 2015 – quanto il più recente Visite sono spettacoli totalmente incentrati sulla dinamica della partitura fisica e sulla mimica di gesti e microgesti, oltre che sull’utilizzo peculiare delle maschere di cartapesta. Di questo e molto altro abbiamo parlato con Riccardo Pippa, ideatore e regista dello spettacolo.

Partiamo dal principio. Qual è la storia del Teatro dei Gordi?
La Compagnia è nata nel 2010, io sono arrivato dopo. Ci siamo conosciuti alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi, durante un laboratorio di drammaturgia con Renata Molinari: mi ero già diplomato, ma stavo frequentando il laboratorio perché stavo scrivendo una tesi di laurea sul suo lavoro. Così ho conosciuto il gruppo dei Gordi… Umanamente, prima che sulla scena. Poi, qualche anno dopo, ho proposto loro il canovaccio del mio primo spettacolo, che poi è diventato Sulla morte senza esagerare: da lì è nato un percorso nuovo, che ci ha portato a creare tre lavori insieme.
A proposito di canovacci, come ti approcci sul piano drammaturgico a un testo privo di dialogo? Qual è il percorso creativo che ti ha portato a Sulla morte senza esagerare?
La prima idea era uno spettacolo per burattini: il canovaccio si snodava in lunga didascalia che descriveva i movimenti di scena. Mi era venuta in mente una cosa del genere perchè avevo visto un burattinaio, in strada, che faceva una scena elementare ma efficace con un burattino raffigurante la Morte: semplicemente fissava i passanti. Appena qualcuno tossiva, ad esempio, fissava lo sguardo su questa persona, e il riso era spontaneo, immediato. Questa immediatezza, questo spirito in qualche modo naïve mi hanno fatto venire voglia di scrivere qualcosa sulla Morte.
Come è nato Sulla morte senza esagerare non saprei dirtelo… è stato una sorta di innamoramento rispetto a un’intuizione. Quando ho presentato il canovaccio alla Compagnia non sapevamo ancora quale linguaggio scenico avremmo scelto: non sapevamo se avremmo usato le maschere integrali – quindi totalmente mute – o le maschere “a mezzo”, che potevano permettere un grado di parlato. Poi abbiamo scelto il silenzio. Le uniche parole dello spettacolo – proiettate – sono dei versi della Szymborska.

I personaggi non hanno bisogno di parlare, perché a esprimere le loro emozioni ed esigenze sono le maschere: la frustrazione, il fallimento, la reiterazione sfiancante che spinge anche la Morte a optare per il pensionamento, attendendo su una panchina. Il linguaggio non è tanto una scelta programmatica della Compagnia quanto un’esigenza narrativa, di efficacia scenica. C’era, questo sì, la volontà di evitare la classica messinscena dialogica, ma non c’era il rifiuto della parola. Ma le situazioni che abbiamo trovato per strada e su cui volevamo lavorare non la presupponevano.
Ad esempio, Pandora, il nostro ultimo spettacolo, è ambientato in un bagno pubblico… che ovviamente non è un salotto: non è il luogo deputato al dialogo, ma all’incontro casuale. Ciò che volevamo raccontare trovava espressione nel gesto e nell’azione fisica più che nella parola. Non c’è una scelta a monte, e così sarà anche per i prossimi spettacoli.
Una domanda che suona un po’ come “è nato prima l’uovo o la gallina”: nascono prima le maschere o i personaggi?
L’unica maschera in qualche modo “richiesta” è quella della Morte, un teschio. Ma le fisionomie dei personaggi che vanno incontro alla Morte nascono anche da sorprese o scoperte. Le maschere sono di cartapesta, una materia particolare e veramente imprevedibile: dallo stampo al risultato finale c’è sempre differenza, un margine di imprevedibilità.
Ma non è solo la maschera in sè: bisogna considerare anche l’incontro dei corpi degli attori con la maschera, che crea figure diverse a seconda di chi la indossa. Sono i corpi ad abitare le maschere, non sono le maschere a vestire i corpi. Le nostre non sono maschere fatte su misura, sono fatte totalmente a mano libera da Ilaria Ariemme: la tecnica utilizzata per queste creazioni rende impossibile la produzione di una maschera uguale a un’altra, e questo consente di avere anche un margine di sorpresa. Ad esempio capita che una maschera nasca come Uomo, ma che poi riveli caratteri molto più marcati se indossata da un’attrice.
Succede molto spesso che sia la maschera a veicolare la drammaturgia e il racconto. Per Sulla morte senza esagerare avevo chiesto una maschera raffigurante una bambina, che si era rivelata troppo corta sul volto dell’attrice. Dovevamo scegliere se rifarla o provare a fare un esperimento: abbiamo allungato il mento e aggiunto delle rughe per trasformarla in una maschera di una signora anziana. Pur stravolgendo la fisionomia iniziale, gli occhi e il naso erano rimasti identici. Da questo strano contrasto tra la parte inferiore e quella superiore, ispirata al volto e allo sguardo di una bambina, ci è venuta l’idea di rappresentare una scena che forse è una delle più potenti dello spettacolo. In questo caso quindi la drammaturgia si è adatta alla maschera realizzata.

Sulla morte senza esagerare è una parabola sospesa: sulla soglia tra questo mondo e il prossimo, la Morte attende i suoi avventori su una panchina, in un momento in cui sembra aver perso qualunque entusiasmo per il proprio lavoro. Al suo cospetto si presentano vittime di incidenti, escort festaiole, anziani mariti e aspiranti suicidi, e il tono della narrazione rimane sempre sospeso tra tragico e grottesco. Dopo la pandemia, avete sentito in qualche modo di dover cambiare l’approccio alla riflessione sull’incontro con la Morte?
Lo spettacolo è di per sé inattuale e contemporaneo, può perciò parlare al presente senza fare attualità. Sapevamo già di avere quindi un punto di partenza solido, atemporale, dotato di una Memoria intrinseca e dunque valido anche per questo periodo.
Abbiamo aggiunto dei segni del presente senza però inquadrare la nostra messinscena unicamente nel vissuto di questi mesi: l’unico riferimento centrato rispetto al periodo pandemico – quando abbiamo rimesso mano allo spettacolo – è il personaggio di un rider. E’ un po come se fosse lo spettacolo a caricarsi di significato attraverso la percezione dello spettatore: lo spettacolo va incontro al contesto, ma non lo abbiamo trasformato nella sostanza.

Qual è il senso del Teatro? Cosa c’è alla fine, dietro la maschera?
A teatro le persone si ritrovano per condividere qualcosa di molto fragile, perchè quel qualcosa che accade sulla scena può essere distrutto da momento all’altro, sia da chi è sul palco sia dal pubblico. Ciò che conta davvero è che ci sia una sorta di tacito, silenzioso accordo affinché quel qualcosa di così fragile possa prendere vita: l’accoglienza verso quel qualcosa che nasce, germoglia e potenzialmente si radica, dà senso a questo incontro. Finché c’è questo desiderio del tutto umano di incontro, è come se si seminasse.
Il Teatro per me non deve necessariamente predicare chissà quale consolazione o verità: la speranza di per sé sta nel vedere un teatro pieno, nella voglia di ritrovarsi. Mi auguro che ci sia sempre qualcosa di edificante alla fine di uno spettacolo, o che quanto meno la distruzione e la rottura che uno spettacolo è in grado di creare possano innescare una dinamica costruttiva negli animi delle persone. Qualcosa in più, non qualcosa in meno.
Per me conta ritrovare l’umanità nella voglia di incontrarsi, di creare. Il teatro è l’espansione dell’animo umano, con le sue pulsioni e le sue potenzialità. E’ come un bambino a cui si dà un foglio e una matita colorata… Spontaneamente, disegna. Alla fine io credo che alla base del teatro ci sia questa immediatezza, questa verità. Ecco, tutto qui.

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