
Saint Omer di Alice Diop – Mostri terribilmente umani | Venezia 79
Durante la gravidanza, madre e figlio si scambiano reciprocamente una determinata quantità di cellule. Sono chiamate “chimere” e transitano in continuazione da un corpo all’altro. Non sono altro che la prova biologica di un legame indissolubile, dell’intersezione esistenziale e genetica più solida in natura, ma anche di un rapporto, quello materno, che il cinema indaga nei suoi aspetti più conflittuali da diverso tempo.
Saint Omer, esordio alla finzione della talentosa documentarista Alice Diop, scompone l’idillio della genitorialità deposizione dopo deposizione, nel solco della vicenda legale della senegalese Laurence Coly, una giovane madre accusata dell’omicidio della figlia. La tipica detection incalzante propria del legal drama è negata a priori: la mano omicida è già nota e certa, il tribunale è accondiscendente perché si ha già una colpevole, ma non una ragione, un motivo che spieghi un delitto tanto truce.

Alice Diop compone un film chirurgico nel calibrare il tempo del racconto su un andamento lento, logorante, giustamente ostico per uno spettatore costretto ad abbandonare la sua comoda passività ricettiva: nelle sequenze in tribunale, il tempo del racconto è uguale al tempo della storia, la narrazione consta di una rigorosa successione di piani fissi e semi-panoramiche di lunga durata, in cui tutta l’attenzione è data ai bravissimi interpreti, alle individualità, spesso centrali e completamente a fuoco.
Non c’è ellissi o tranello narrativo possibile per una storia tanto abrasiva e cruda, non c’è sublimazione dello sguardo a cui l’autrice si arrenda per favorire un coinvolgimento. Si coglie una raffinata attenzione per il ritratto, l’indagine dei volti come specchi muti di un’emozione, tra vicinanza e lontananza, tra piani parlati e piani d’ascolto.

Quello di Diop è uno sguardo tanto nitido, paziente e costante da aprire, giocando con la durata e la focalità, un varco inquieto in questo evento già tragico, ma narrato senza ammissibili slanci patetici, dimostrando come un’ottima regia possa raccontare il tragico anche senza ricorrere a iperbolazioni enfatiche in fase di scrittura.
Ma Saint Omer è soprattutto un confronto tra due genitorialità diverse: una violentemente soppressa, l’altra paurosamente potenziale, entrambe tematicamente incentrate su un tipo di racconto che fa della maternità una condanna, un tradimento al proprio io di donna, un arresto esistenziale che sgomenta come una rasatura pubblica, una maledizione, una stregoneria.

Già durante l’ultima edizione del festival due adattamenti dalla prosa come La figlia oscura di Ghyllenhaal-Ferrante e La scelta di Anne di Diwan-Ernaux – Leone d’Oro a Venezia 78 – delineavano la maternità come forzata negazione della proprie aspirazioni. Diop ha il merito di non appianarsi su discorsi già fatti e di sofisticare la riflessione senza risultare cerebrale, coccolando cioè, nonostante la compostezza formale, il dato emotivo.
La partecipazione sentimentale e autobiografica dell’artista erutta dal materiale d’archivio che frammenta quest’opera già tanto compatta: da una parte quello universale (Pasolini, Duras), dall’altra quello intimo dei filmati di famiglia di un natale lontano, in cui Rama si guarda bambina. Lei, docente universitaria e scrittrice in cerca di una storia, è la falsa protagonista, lo sguardo con cui e attraverso il quale assistiamo al processo, la madre parallela e speculare dell’opera.

Come noi – e qui risiede il motivo di una necessaria immedesimazione in uno sguardo che sia estenuante e sofferto –, è spettatrice sgomenta, laconica reporter dal fronte come lo era Emmanuel Carrère nel meraviglioso L’avversario, pubblico scioccato e silente. Incalzata da una colonna sonora gutturale e sospirata, dalla contemplazione della generazione materna precedente, scoprirà un ponte emotivo che la lega all’imputata Laurence, una rivelatoria sincronia di respiro. Con un’opera incredibilmente complessa eppure letale nel colpire lo spettatore, Alice Diop racconta il mal di madre con un film tanto innamorato della sua tematica da rifiutare il più possibile ogni cesoia visiva o narrativa che sia. Come ogni grande film, apre una miriade di domande e non concede risposte al suo mistero, agguantandoci nel ritratto ipnotico di una madre criminale e parallela, un mostro terribilmente umano.
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[…] ha sempre un che di performativo (basti pensare, anche se con esiti praticamente opposti, al Saint Omer di Alice Diop, in concorso a Venezia 79). Una prossimità che Ozon sfrutta alla perfezione, estendendo poi la […]