
Mon Crime – La colpevole sono io | Performare un omicidio
«Giovanotto, non siamo a teatro», dice un giudice togato rivolto a un melodrammatico Édouard Sulpice. Giustappunto, siamo in tribunale. Avviene spesso in Mon Crime – La colpevole sono io di François Ozon (in sala dal 25 aprile) che i due luoghi vengano sovrapposti in una sorta di consapevole fraintendimento. Uno, il teatro e nello specifico il suo palcoscenico, deputato allo spettacolo, all’intrattenimento; l’altro, il tribunale, alla serietà del potere giudiziario, del provvedimento disciplinare. Due opposti per definizione, apparentemente, ma che si avvicinano con estrema facilità se consideriamo che anche l’esecuzione giuridica in tribunale ha sempre un che di performativo (basti pensare, anche se con esiti praticamente opposti, al Saint Omer di Alice Diop, in concorso a Venezia 79). Una prossimità che Ozon sfrutta alla perfezione, estendendo poi la connotazione scenica della teatralità anche lungo tutti gli altri spazi del suo ultimo film.
Già a partire dalla prima sequenza, Mon Crime propone il momento drammaturgico apicale da cui si srotolano senza soluzione di continuità gli eventi tragicomici che con ritmo calzante conducono a una conclusione anch’essa di estrema teatralità. Siamo nella Parigi degli anni ’30, all’esterno di una villa lussuosa in cui avviene un’aggressione: Madeleine (Nadia Tereszkiewicz), attrice bella e giovane, resiste e si divincola dalle avance di un ricco produttore che avrebbe dovuto proporle di lavorare in un suo film. Tornata a casa, condivisa con l’amica Pauline (Rebecca Marder), neo avvocato che fatica a sbarcare il lunario, Madeleine è raggiunta da un detective che le dà notizia della morte del produttore, assassinato. Nei modi assai rocamboleschi della commedia screwball, una serie di coincidenze inchiodano Madeleine in cima alla lista dei sospetti.

Senza troppi indugi, Madeleine e Pauline individuano i tratti positivi di questa supposta colpevolezza, che se articolata con ingegnosità si potrebbe rovesciare in un’occasione di estremo successo, le luci della ribalta femminista per Madeleine, astro nascente del cinema e vestita del nuovo fascino della dannazione, e per Pauline, assediata di richieste dopo il trionfo in tribunale come difensore dell’amica. E tanto accade, con quell’abbondanza comica del parlato e la gestualità gigionesca dei personaggi maschili che suturano le logiche del teatro alle immagini in movimento. L’omicidio piace a tutti, persino alla vera assassina, la stella del cinema muto Odette Chaumette (una Isabelle Huppert formato Gloria Swanson in Sunset Boulevard) che vorrebbe rivendicarlo per ritagliarsi anch’ella una fetta di popolarità. Così Mon Crime incrina ludicamente le garanzie del patriarcato, attraversa agevolmente il #MeToo mediante un femminino astuto che fa balbettare, sgranare gli occhi ai personaggi maschili, li fa cincischiare pavidamente e schiantare contro un ordine delle cose ormai rovesciato, con le mogli che prendono a immaginare di uccidere i mariti e altre che finiscono per farlo, in preda a una nuova euforia di ambizione femminile.

E più di questo, che comunque riporta alle grandi capacità narratologiche e manipolative, di stratificazione e mescidazione del cinema ozoniano, c’è però quella elaborazione finissima della performatività che fa il paio con il portato ri-creativo, ripensativo del cinema. Perché l’omicidio da cui il film prende le mosse è confinato in un fuoricampo, un non visto che va ricostruito e a cui Ozon sostituisce pian piano la sua messa in scena continua: non perché voglia consegnare la verità dell’accaduto allo spettatore, ma per disattenderne giocosamente le aspettative, di performance in performance, dalla versione stile cinema muto a quella da proscenio teatrale sul finale. Come se Ozon (con largo spirito di immaginazione da parte di chi scrive) usasse il cinema per prendersi gioco degli altri e di sé, dei temi scottanti del nostro tempo, immaginando di far dirigere a Billy Wilder il Rashomon di Kurosawa, con una struttura narrativa per tentativi che intrattiene tenendo a bada la verità – il senso del cinema d’autore, dell’Ozon auteur, qui lontanissimo – con il potere illimitato della burla.
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