
Il darwin inconsolabile di Lucia Calamaro
Una famiglia, tre figlie (Gioia, Simona e Riccardo) e una madre (Maria Grazia), due carrelli della spesa, opere d’arte sparse qua e là e fiumi di parole: darwin inconsolabile (un pezzo per anime in pena) scritto e diretto da Lucia Calamaro, viene presentato il 30 Gennaio a Teatri di Vita, Bologna.
Le luci in sala si spengono e i quattro protagonisti si ritrovano in un supermercato lamentando, tra le risate quasi immediate del pubblico, di aver esaurito l’avibile, di non avere bisogno realmente di quello che hanno, di aver eletto la plastica a divinità e di essere distratti da quel luogo-non luogo qual è il supermercato. Ma, distratti da cosa?

L’elemento scatenante della vicenda è la confessione della mamma che si dichiara essere in fin di vita. Nessuno, però, le crede: i figli pensano stia scherzando per l’ennesima volta. Viene anche riportato come esempio la modalità di difesa di alcuni animali, ovvero: la tanatosi. In vista di un nemico o di un pericolo, l’animale si pietrifica, si finge morto, come se, in questo modo, si potesse modificare lo stato delle cose intorno a sé. Ma cosa c’entra la tanatosi con la preannunciata morte della madre?
Capiamo fin da subito che, attraverso questa famigliola, Calamaro tenta di affondare nel delicato tema della fine del mondo. Il parallelismo tra la madre di famiglia Maria Grazia e il pianeta Terra è quasi immediato: due madri che da un po’ di tempo mandano messaggi di aiuto, senza essere ascoltate e credute.
Ridiamo subito, dunque, anche di fronte alle dinamiche familiari, care alla drammaturga, e a questi personaggi che portano in campo diverse sfaccettature riguardo alla suddetta questione.

Tutto ruota intorno a Maria Grazia, la madre, che ripete in continuazione di sentirsi abbandonata dai suoi figli irriconoscenti. È stata un’artista di arte contemporanea, è sdraiata su di un letto, assieme a un grossa quantità di verdura, dalla quale spera di assorbire energia vitale, si definisce: «artista morente con verdura e sue opere», quasi come fosse «un arcimboldo scomposto».
Maria Grazia ha regalato a sua figlia Simona un manoscritto apocrifo di Darwin, dove si racconta che l’uomo farà un “salto di specie” verso l’elefante, ovvero verso la bontà, poiché il cervello limbico di questo animale è tre volte più grande di quello degli uomini. Confessa però, in fin di vita, che il manoscritto non è altro che un regalo di un suo vecchio amante.
Simona si dispera per la notizia ricevuta dalla madre riguardo al manoscritto: avrebbe voluto non sapere e vivere nella menzogna. Per una vita intera si è allenata a «fare l’elefante», in un mondo che non è veramente pronto per evolversi verso la bontà.

Le tre figlie sono, dunque, in balìa di questa madre egocentrica e, seppur conservandone alcuni tratti, si distaccano da essa.
Simona vive in uno stato perenne di ansia – «da preoccupata a me l’errore mi attacca» – ed è quella più indaffarata in famiglia. Partecipa a manifestazioni ambientaliste con striscioni che recitano: «e già prevedo l’inevitabile magone», «stiamo andando incontro alla disperazione», «allora evito». Evita tutto, si ritira, e non fa più niente, perché «tanto LORO cosa fanno?». È etichettata come “piagnona” e non fa altro che lamentarsi anche lei dell’irriconoscenza della sua stessa famiglia.
Gioia è la figlia in continua lotta con la madre, in fase adolescenziale perenne. Egocentrica come Maria Grazia, parla solo di sé e si presenta dicendo «sono sola con le verdure, sola con le masse, come Mao». È estrema sostenitrice della teoria interspecista, cita Donna Haraway e sostiene che siamo tutti collegati, «un po’ come i cavoli di Darwin».
Riccardo, saputello di turno e pacifista, cerca di attenuare i dissapori tra le donne di casa. È un insegnate delle scuole medie e in scena legge i temi dei suoi alunni, con traccia: “descrivete il vostro maestro”. Sostiene che lui avrebbe dovuto ricevere il manoscritto darwiniano perché più preparato di Simona e più dedito allo studio.

In un concerto incessante di battibecchi, incomprensioni, egocentrismi e solitudini di esseri umani fragili, la questione è ben riassunta da una frase di Gioia: «il nostro è un rapporto univoco: la madre dà e la figlia riceve», centrando bene l’egocentrismo dell’uomo, legato nello specifico anche al rapporto con le risorse del pianeta Terra.
Ma interrogarsi sulla fine del mondo, averne paura, sembra non essere la soluzione. D’altronde, come dice Simona, è «meglio assuefarsi al pericolo, allertati tutto il tempo è stancante». Così ci ritroviamo a parlare, parlare e parlare, senza renderci conto che stiamo andando davvero verso la fine.
Per tutto lo spettacolo le luci rimangono invariate in un piazzato, a muovere la scena è effettivamente solo il ritmo sempre elevato e sostenuto del flusso di parole: è verso la fine che le luci si abbassano, cala un semibuio, le parole rallentano e la voce sottile della mamma, intenta in un ultimo addio, si spegne piano piano verso il nulla. È questo lento affievolirsi verso il buio la condizione che vivremo nei pressi della fine del mondo? «Si tira avanti a colpi di vento, rinviando tutto a domani» dice Maria Grazia, domandandosi se il capezzale potrebbe essere effettivamente un luogo di collettività dove ci ritroveremo tutti insieme, solo alla fine di tutto. (o semplicemente, alla fine della specie umana).
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