
Architettura sociale e libertà – Intervista a Jonas Carpignano
Intervista a Jonas Carpignano
di Carlo Maria Rabai e Riccardo Bellini con la collaborazione di Chiara Turco
Illustrazione di Federica Berti
In occasione della nostra ottava uscita cartacea, avevamo raggiunto Jonas Carpignano mentre a Palermo stava completando il montaggio del suo ultimo lungometraggio, “A Chiara” (di cui trovate qui la nostra recensione). Con lui abbiamo parlato dei suoi film, Mediterranea e A Ciambra, di cinema del futuro e di architettura sociale. Una conversazione alla scoperta di questo autore dalla chiara visione che rappresenta una voce unica nel panorama italiano e internazionale.
Notavamo la tua incredibile capacità nel lavorare con attori non professionisti, scegliendo persone “comuni”, ma straordinariamente naturali davanti alla camera. Due esempi su tutti Koudous e Pio (ndr: Koudous Sehion e Pio Amato, apparsi la prima volta in Mediterranea, nel 2015). Come li hai conosciuti, come è stato lavorare con loro?
Sotto certi punti di vista Koudous è il punto di partenza di tutto. Sono andato a Rosarno la prima volta nel 2010, ma non sono riuscito a fare nulla di concreto. Al tempo era difficile creare un legame con quel territorio. Tutti volevano fare reportage e c’era molta diffidenza, soprattutto nella comunità africana. L’anno successivo sono ritornato approfittando del fatto che durante i mesi estivi rimangono in quelle zone pochi immigrati. Infatti nei periodi caldi, essendo lavoratori stagionali, molti viaggiano verso Napoli. Rimane chi veramente è radicato e vive in quei territori.
Ricordo che vidi Koudous per la prima volta a una manifestazione. Io ero alla ricerca dello sguardo giusto per realizzare il mio film, ma tante persone avevano paura di esprimersi. Koudous mi colpì immediatamente. Teneva uno striscione e un megafono in mano. Sembrava il capo. Aveva carisma e una grande capacità di gestire le persone, e da lì ho subito capito che lui era perfetto per ciò che volevo in quel momento. Il racconto di Mediterranea è radicato nella sua esperienza.
Abbiamo stretto un rapporto fortissimo. Oltre a vivere insieme, ho passato molto tempo in Africa a casa sua con i suoi affetti più cari, avendo anche l’occasione di fare ricerca e apprezzare la cultura e la ricchezza di quei luoghi.
A Ciambra invece è un viaggio all’interno della comunità rom, ma anche il racconto di formazione di Pio restituito con una naturalezza da cinema del reale. Ad un certo punto, però, l’action e il noir fanno incursione nel film. Quali elementi reali della vita di Pio sono stati utili per elaborare la storia? In che rapporto stanno realtà e finzione nel tuo Cinema?
Questo discorso vale sia per Mediterranea che per A Ciambra. I miei film nascono dalla realtà. È raro che io chieda a qualcuno di fare qualcosa che non ha mai fatto in passato. Ciò che conta davvero è la memoria emotiva, la capacità di tornare a un momento veramente vissuto, richiamandolo nella scena di un film. C’è sempre qualcosa di vero. Ovviamente la realtà è ampia: il mio obiettivo è quello di sottolinearne un elemento interessante.
Nel caso di A Ciambra volevo sondare il rapporto tra Pio e una persona al di fuori della Ciambra, approfondendo il rapporto tra comunità rom e comunità africana, che ho visto in prima persona, cercando un modo efficace per essere verosimile.
Sempre collegandoci ad A Ciambra, sappiamo del coinvolgimento nel tuo lavoro di Martin Scorsese, con il quale, peraltro, hai in comune il rapporto con l’America e l’Italia. Come ha influito la sua figura? Vi siete confrontati? C’è all’orizzonte una vostra nuova collaborazione?
Lui è stato molto più presente durante il montaggio. Ha visto le mie stesure e mi ha fornito il suo punto di vista. Martin Scorsese promuove tanti progetti con registi giovani: sono grato per la sua presenza. Chiaramente è sempre molto impegnato, ma, quando c’è, si sente. Non posso però dire che abbiamo un legame affettivo. Un anno fa lui ha deciso di entrare come produttore esecutivo nell’ambito di un mio nuovo progetto, dando un sostegno sia in termini di finanziamento che di visibilità.
Rimaniamo sempre su Scorsese e sulle convergenze che rispecchiano i tuoi interessi: i vostri personaggi sono degli sconfitti schiacciati dal sistema che li ha plasmati. Anche Pio fa una scelta che si chiude con un rito di iniziazione, accedendo al mondo adulto determinato dalle regole della sua comunità, ricordando un po’ ciò che avviene in Mean Streets (Martin Scorsese, 1973).
Potrebbe essere già la mia risposta alla domanda. Io penso che la tradizione abbia sicuramente un peso. Si può dire che l’architettura sociale a volte possa rivelarsi una gabbia, ma non credo che ciò abbia risvolti solo negativi. Nel caso della Ciambra, la storia dà un senso di appartenenza. La tradizione ha creato una rete sociale che ha permesso alla comunità di sopravvivere, rimanendo diversa dai Calabresi.
L’idea che Pio non possa superare questa architettura sociale può dare fastidio. Nessuno vorrebbe che lui tradisse un suo amico, però è verosimile. Io comprendo le sue azioni. Non ha scelta e ha un motivo molto forte che lo costringe. Non dobbiamo volere che esca dalla sua realtà; semmai è necessario capire perché lui voglia stare nel mezzo, anche se non è sempre facilmente condivisibile. L’azione di Pio è un sacrificio, compiuto per preservare equilibri all’interno della sua famiglia e della sua comunità. Vista da un altro punto di vista, la sua scelta può essere espressione di certi valori. La mia idea è quella di rappresentare il perché lui voglia aderire a quella logica, mostrando la complessità del sistema.
Sappiamo che sei alla post produzione del tuo nuovo film. Puoi dirci qualcosa a riguardo? Riprendi i territori di cui hai parlato nei precedenti film? Volevamo anche sapere se e come l’emergenza sanitaria abbia influito sulle tue riprese e se hai pensato di inserirla nel tuo racconto.
Il nuovo progetto parte da una realtà sfiorata nei precedenti film e analizzata da un altro punto di vista. Mediterranea, A Ciambra e A Chiara non sono propriamente una trilogia, ma un trittico. Ci sarà Koudous, pur non avendo un ruolo centrale nella narrazione, e ci sarà anche Pio, ma questa volta sarà molto più presente sua cugina. In A Chiara conosciamo le ragazze del quartiere Marina di Gioia Tauro: indaghiamo la loro adolescenza e come questa fase delicata della vita viene vissuta in quei luoghi.
Ora sono nel pieno del montaggio del film. Posso dire che la pandemia in atto non ha influito sulla narrazione, ma penso che non avremmo avuto il film che abbiamo adesso se la situazione fosse stata normale. A causa delle restrizioni, eravamo in dodici sul set. Si è creata una bolla che ha permesso l’instaurarsi di una profonda intimità tra di noi. Certamente è stato stressante e abbiamo dovuto aggiungere settimane al nostro lavoro.
Il tuo è un approccio che vive di naturalezza e immediatezza, requisiti che delineano chiaramente la tua idea di Cinema, facendo di te una firma. Il che non è scontato per un giovane regista. Immagini di fare qualcosa negli Stati Uniti senza rinunciare a questo metodo?
Mai dire mai, ma per ora gli Stati Uniti non sono al mio orizzonte. Mi lascio trascinare dalla vita. Dopo questo trittico mi piacerebbe lavorare nella zona Sud America/Caraibi. La mia mamma, i suoi genitori, sono delle Barbados. È un mondo che mi appartiene, anche se non sono cresciuto lì. Vorrei approfondire e raccontare quelle zone. Io parto sempre dai mondi dei personaggi e, ora come ora, non sento il desiderio o comunque il bisogno di affrontare le storie di chi vive negli Stati Uniti.
Parlando di progetti futuri/passati, senti l’evoluzione stilistico-tecnica da un film all’altro? In A Ciambra si avverte un budget più alto rispetto a Mediterranea: com’è lavorare così? Ci piacerebbe capire dove stai andando e se tu lo hai capito.
Uno impara guardando i propri lavori. Sicuramente sono cambiato tanto negli anni, ma la differenza stilistica parte sempre dai personaggi al centro del racconto. Se rifacessi Mediterranea oggi, sarebbe simile perché la scelta è stata proprio quella di riportare il punto di vista frammentato di Koudous. Mediterranea, infatti, è un film frammentato, come la conoscenza del protagonista del mondo in cui sta arrivando.
A Ciambra è caotico, perché la realtà raccontata è caotica. Dipende sempre dal punto di vista del personaggio al centro del racconto. A Chiara sarà meno confusionario, perché la protagonista è radicata a Gioia Tauro e sta cercando di indagare su cosa sta succedendo nel suo mondo.
Oggi sono più efficace sul set, ma rimango dell’idea che la differenza sia per il 75% radicata nel punto di vista del personaggio.
Le tue scelte restituiscono mondi e visioni differenti: in Mediterranea le esigenze di Koudous e i pregiudizi di una parte della popolazione. In A Ciambra ritroviamo invece squarci lirici e una visione onirica del passato.
In Mediterranea, Koudous ha obiettivi precisi, ma quando arriva non capisce perfettamente quale sia la sua strada. Lo scopo è perso e lui è annebbiato. Il racconto è meno lineare anche per questo motivo. C’è un contrasto tra l’inizio del film che porta in scena il brevissimo viaggio di Koudous e il suo arrivo, che apre tutte le porte a quello che verrà. Questo è il fulcro del film. Avrei potuto girare un film sul tema del viaggio, ma a me interessava il rapporto tra Koudous e l’Italia, e l’integrazione nella nuova realtà.
Sicuramente più budget significa non solo più soldi, ma anche più tempo per girare. Mediterranea è stato girato in sei settimane, A Ciambra in tredici. Cambia tanto avere maggiore possibilità di dare tempo e spazio agli attori. Io non voglio imporre mai una struttura cinematografica sui personaggi. Anche in A Ciambra era fondamentale seguire i ritmi degli attori e farli sentire a loro agio. Iniziavamo a girare anche verso le 16:00, perché alle volte Pio si svegliava a quell’ora!
Una domanda da persona che guarda il futuro. Come sarà il Cinema del futuro? Quale tendenza vedi nei tuoi coetanei? C’è qualcuno che stimi e segui in particolare?
Credo che sia veramente un momento difficile. La pandemia porterà cambiamenti decisivi nel bene e nel male anche nel mondo dello spettacolo. Per me stiamo andando nella direzione giusta, ci sono sempre più spazi per racconti alternativi. Vedo in sala tanti personaggi interessanti e un modo sempre più vario per esprimersi.
Scorsese parla di saturazione delle immagini. Oggi siamo inondati da immagini, ma più è largo il campo, più c’è spazio per qualcosa che è alternativo. Io per esempio ho un rapporto molto forte con Alice Rohrwacher, con cui mi confronto sempre.

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