
I 25 anni di Strade Perdute – I’ll see you again in Home Video
“You’ll never have me”
(Alice/Renée)
Profezia e dogma, le parole sussurrate all’orecchio di Pete Dayton prima dell’amplesso disvelano la natura fantasmatica della sua amante, mentre la silhouette di Patricia Arquette si dissolve nei confini in celluloide della pellicola sovraesposta. Ambiguità, ubiquità, il lessico visuale che percorre i 135 minuti di Lost Highway (1997) dirotta i nostri binari cognitivi lungo le variabili della contraddizione, a bordo della Ford Mustang del ’65 di Fred/Pete che percorre illogici sentieri narrativi. A pochi anni dall’11 settembre in quanto evento mediale, ma già collocata nell’universo della finzione come “nuovo spazio reale”, dello schermo come cornice della modernità, e del VHS, l’opera di David Lynch matura le riflessioni sulle immagini e sulla loro “vita mediale” appena accennate nel lontano Blue Velvet (1986), e in futuro stato di grazia poi in Mulholland Drive (2001) e in Twin Peaks – The Return (2017).

A 25 anni dalla sua prima proiezione su grande schermo in Francia – finanziato dalla società di produzione francese Ciby 2000 – il settimo lungometraggio lynchiano orienta ancora, a posteriori, le riflessioni sull’autonomia delle immagini nel rappresentare il contemporaneo e sul potere di modificarne l’andamento – le VHS accerteranno la colpevolezza di Fred – e, più in generale, sull’ecosistema mediale come creatore di mondi possibili, progenitore dei reality show, delle telecamere di sorveglianza, della realtà virtuale.
Primo del trittico di film ambientati a Los Angeles, Strade Perdute inaugura la città dello Spettacolo come set privilegiato per la messa in scena di incubi, sogni, illusioni, allucinazioni. Due storyline si alternano in un circolo vizioso narrativo destinato a collassare su sé stesso: il musicista di jazz Fred Madison e sua moglie Renée, filmati e registrati a loro insaputa in anonime videocassette recapitate al loro indirizzo, e Pete Dayton e Alice, un meccanico e la sua amante in fuga da un gangster. “Dick Laurent è morto” l’incipit e il finale di questo nastro di Möbius cinematografico, un’eco nostalgica a “Laura Palmer is dead” come evento-pulsante di attivazione del racconto e legame narrativo tra Fred e Pete, tra Renée e Alice, tra la realtà e la sua deformazione, o meglio, tra la realtà e una sua alternativa possibile.

È la finzione, per Lynch, il vero terreno di discussione artistica del contemporaneo, del mondo che si è fatto progressivamente immagine, e la potenza del cinema di generare altre realtà, di moltiplicare il mondo in infinite rappresentazioni acquistabili o noleggiabili, si offre come strumentario autoptico. Strade Perdute mescola noir, soap opera, crime story – i generi cari al regista – e se ne serve per dar vita a un corto circuito narrativo dove le identità di personaggi e luoghi si smembrano e sdoppiano, si moltiplicano. L’incapacità di Fred di ricordare l’omicidio della moglie, la mancata metabolizzazione del trauma, si risolve nella perdita del proprio referente – Fred diventa Pete – nella fuga dal reale per rifugiarsi nel mondo delle immagini: la realtà parallela di Pete, una moglie che diventa famme fatale, una vita copia contraffatta – o potenziata – dell’originale. Mistery Man, la figura maschile perturbante che interviene in entrambe le storyline con la sua camera a mano è la materializzazione del filmmaking come unico linguaggio attuale possibile: tanto nel rigetto per le videocamere di Fred e nelle VHS che lo incriminano, quanto nel traffico di produzione pornografica in cui è immischiata Alice, la “ripresa” sembra riscrivere la verità dei personaggi secondo le leggi dell’audiovisivo.

Lo stesso Lynch lavora con il potenziale di “modifica” che offrono le immagini, siano esse superfici materiali o digitali. La passione del regista per la manipolazione tecnica dell’immagine – sovraesposizione, sovraimpressioni, aumento o diminuzione drastica di luci e ombre – gli ha permesso di ricreare atmosfere e personaggi che evocano l’espressionismo tedesco più estremo mentre si spingono oltre, simulando errori e storpiature. Il volto di Bill Pullman che si smembra sul finale è allora ancora metariflessione: non solo la corrotta identità del protagonista sembra non appartenere più al suo corpo, ma l’immagine stessa si smembra auto-dichiarando la propria modificabilità.
Lost Highway suggeriva dunque prima del tempo, o nel suo farsi, la medializzazione della realtà, l’avvento del dispositivo visuale come inevitabile mediatore linguistico, prima dei social media, del marketing digitale e della computer grafica. “You’ll never have me” è allora la battuta finale delle immagini che vivono la loro crime story, il loro noir moderno – per citare lo stesso Lynch – il tentativo fallimentare e diabolico di Fred e Pete di disfarsi delle immagini, dei filmati porno, delle rappresentazioni delle brutture del XXI secolo iscritte nei dispositivi di visione, e il terrore di fronte alla loro reattiva proliferazione.

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[…] stato uno dei più frequenti collaboratori di David Lynch, e oltre a Hotel Room ha co-sceneggiato Lost Highway; prima ancora, una sua raccolta di racconti era stata alla base di Cuore selvaggio, il film con cui […]