
Zinder di Aicha Macky | FilmMakerFest 2021
Nel giro di pochi giorni a Filmmaker Festival sono stati proiettati due film che, nella loro radicalità, tentano di mettere in discussione il paradigma dello sguardo maschile – sul maschile – al cinema. In questi due film è infatti lo sguardo femminile ad essere gettato su un universo maschile: su corpi, gesti, discorsi maschili. Se uno sguardo è però ricolmo di esperienza, di visioni, di altri corpi, l’altro è soltanto alla sua seconda apertura. Parlo, chiaramente, di Garage, des moteurs et des hommes di Claire Simon e di Zinder di Aicha Macky, regista del pluripremiato L’arbre sans fruits. Si dovrebbe parlare anche di una diversa latitudine di questi sguardi: se uno è puntato su Claviers, un villaggio rurale della Francia del sud, l’altro attraversa le strade polverose e dimenticate di Zinder, seconda città del Niger collocata nel cuore del Sahel, nonché città natale della stessa regista. E ancora: se Claire Simon – questa volta pigramente? – si concentra particolarmente sui discorsi e sulle dinamiche interpersonali ed economiche che si producono all’interno dell’officina meccanica del proprietario Christophe, Aicha Macky, implacabile, fa scorrere la sua macchina da presa sui corpi scolpiti dei ragazzi di Kara Kara (il ghetto di Zinder) appartenenti alla “Palais Hitler” (chissà con quale circolazione di informazioni e conoscenze Hitler è diventato nel quartiere di Kara Kara, oltre che un americano, un palestrato).
Zinder si articola in tre fili narrativi che hanno in comune il quartiere di Kara Kara e il tema, doloroso e quasi provvidenziale, dell’assenza di lavoro, e di conseguenza della criminalità, dei modi di sopravvivere, di redimersi e peccare sempre con in bocca la frase “Se Dio vuole”. Siniya Boy, Bawa, Ramsess sono le tre voci che affiorano dalla realtà violenta e soffocante di Zinder. Siniya vorrebbe aprire un’agenzia di sicurezza, ma è anche il capo della “Palais Hitler”, di cui molti membri vanno e vengono dal carcere a causa dell’accanimento della polizia contro i reietti del quartiere. Aicha Macky mette fin da subito in chiaro il quadro sociologico del film chiedendo a Siniya il perché dei loro destini differenti: il ragazzo non ha dubbi, e risponde “l’istruzione”. I motivi tuttavia sono più profondi e il film gradualmente riesce a scandagliarli, come il passato coloniale, lo sfruttamento senza scrupoli da parte dei bianchi delle cave e del sottosuolo del Niger, o la vicinanza con la progredita Nigeria, da cui provengono le taniche di benzina contrabbandate dall’ermafrodito Ramsess e rivendute sul mercato nero da Siniya. Nel loro spostarsi da un confine all’altro le taniche gialle di benzina fungono da raccordo per le tre storie. La trasmissione radiofonica in cui viene dibattuto il problema del contrabbando viene ascoltato dai passeggeri del taxi di Bawa, convertitosi a tassista e a “operatore di strada” grazie ad una ONG dopo essere stato capo di una delle gang più pericolose di Kara Kara. La macchina da presa lo segue per le vie brulicanti di ombre del quartiere a luci rosse, dice che ogni sera viene tormentato dal passato.

Grazie a Bawa Aicha Zacky si avvicina ai racconti delle prostitute, sicuramente la parte più straziante del documentario. Le donne, tranne la moglie di Siniya, non vengono mai inquadrate per intero. Nel racconto di una ragazza truffata da una signora, che al posto di farle vendere birre, come promesso, le sequestra il telefono e la costringe a prostituirsi, Macky mostra solo il profilo, soltanto i capelli che sta intrecciando di una sua compagna. Nell’unico momento non strettamente documentario del film alcuni volti oscurati di donne e ragazze vengono ripresi frontalmente nell’atto di fumare una sigaretta. Sa quasi di liberazione, e insieme rende, visivamente, la gabbia oscura in cui ogni prostituta è racchiusa: una gabbia fatta di violenza e abusi sessuali. D’altra parte Macky decide di filmare, come una lente d’ingrandimento che scorre radendo i corpi, i segni tangibili della lotta quotidiana tra la vita e la morte a Kara Kara: donne e uomini mostrano le proprie cicatrici come segno che va al di là della ferita, del colpo inferto, ma assume significati storici e politici ben più rilevanti. Nello sguardo in macchina dei membri della “Palais Hitler” dopo la condanna, pronunciata in francese (questa immagine di un potere giudiziario e politico che parla una lingua ufficiale altra, mi porta inevitabilmente alle pagine di Passar la vita a Diol Kadd di Gianni Celati in cui si descrive la scena di alcuni bambini che, senza capir nulla, ascoltano alla televisione i discorsi in francese dei politici senegalesi, loro che ogni giorno parlano wolof), di un loro amico e compagno, viene condensato il senso dell’intero film. Macky non cerca soltanto di imporre il proprio sguardo femminile coraggiosamente penetrato in un micro-cosmo maschile e patriarcale, ma sente l’esigenza di un ritorno (a casa, forse), di uno sguardo di rimando, di risposta, per costruire e progettare un futuro che si rispecchia, semplicemente, negli occhi e nei volti segnati dei ragazzi e delle ragazze di Kara Kara.
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