
DocuDonna 2022 – I film vincitori della IV edizione del Festival di documentario a regia femminile
Si è tenuto dal 9 all’11 dicembre a Massa Marittima, nel cuore della Maremma toscana, la IV edizione di DocuDonna, il festival internazionale di cinema dedicato ai documentari a regia femminile. Un patrimonio di immagini, sensibilità e punti di vista – disseminato e spesso disperso in un’industria culturale a prevalenza maschile – riunito in un evento che si propone di intercettare una produzione cinematografica d’avanguardia, liberando, promuovendo e valorizzando il “cinema del reale” al femminile.
DocuDonna 2022 – con produzioni che arrivano da Francia, Iran, Italia e Olanda – raccoglie gli sguardi femminili del cinema italiano e internazionale su un mondo contemporaneo sempre più problematico. Dalla dimensione pubblica a quella privata, dalla questione iraniana alle narrazioni più quotidiane, gli 11 film in concorso riflettono lo spirito militante del Festival, spazio di libera espressione e rivendicazione per le artiste e la sensibilità femminile: “DocuDonna è un progetto che nasce dall’esigenza di dare spazio alle tante registe di talento nel panorama internazionale – sottolinea Cristina Berlini, ideatrice e direttrice artistica del festival – che tuttavia faticano ad emergere in un ambiente ancora a prevalenza maschile e a raggiungere di conseguenza un pubblico vasto. Per me il Festival, e soprattutto il cinema, non possono limitarsi al puro entertainment ma devono agire a livello più profondo, hanno la responsabilità di fotografare il mondo attuale e restituirlo ad un pubblico sempre più cosciente”.
La giuria, composta da Elena Molina, Daniele Cini e Teresa Sala, ha assegnato ai documentari in concorso i premi al Miglior Documentario Italiano, Miglior Documentario Internazionale e due Menzioni Speciali, rivelati durante la serata finale nella Sala dell’Abbondanza.

Miglior Documentario Italiano a Non sono mai tornata indietro di Silvana Costa
Il premio al Miglior Documentario Italiano è stato assegnato a Non sono mai tornata indietro, opera prima da regista di Silvana Costa e scritto insieme a Chiara Nano: un esordio che arriva dopo più di 12 anni dedicati realizzazione di documentari in qualità di produttrice, operatrice e montatrice.
Non sono mai tornata indietro con semplicità e rigore racconta una storia che appare antica e lontana, figlia di un’altra generazione, ma che è in realtà molto più vicina di quanto potremmo immaginare. La protagonista è Iolanda, una delle ultime testimoni di un’usanza arcaica che ha rappresentato per secoli la netta disparità sociale nel Sud Italia: bambine provenienti da povere famiglie contadine venivano cedute come delle “merci” a famiglie benestanti in cambio di cibo e un tetto. Iolanda ha vissuto dagli 8 ai 44 anni nella famiglia calabrese della regista: per Silvana Costa era una persona di famiglia ma con un ruolo subalterno, un’identità liminare che oscillava tra l’amore e l’odio, tra ribellione e accettazione.
Dopo una vita trascorsa a svolgere le mansioni di donna di servizio e tata della regista e dei suoi fratelli, Iolanda ha deciso di fuggire in Canada in cerca di una libertà tanto agognata, alla scoperta di un nuovo mondo senza alcuno strumento di comprensione e comunicazione. La regista decide ricostruire la storia universale di un’emigrata che, come tante altre prima di lei, è rimasta imprigionata in un passato di sofferenze. Costa utilizza il cinema come strumento della memoria, un mezzo per fotografare in maniera indelebile una storia altrimenti destinata a perdersi nelle pieghe del tempo.

Non sono mai tornata indietro pone fin da subito Iolanda al centro dell’inquadratura e della narrazione: il volto di Iolanda si fonde però anche con quello di tante altre donne in altrettanti filmati d’epoca, mentre storie e testimonianze si sovrappongono in una composizione suggestiva che restituisce frammenti della condizione femminile del periodo. Queste voci si uniscono in un mosaico eterogeneo ma universale: per Costa non è essenziale associare un volto a ogni parola, perchè l’importante è che queste storie siano raccontate e ascoltate.
Costa sa bene di ricoprire non solo un ruolo dominante sul soggetto-oggetto del suo sguardo – sia per classe sociale sia in qualità di regista – ma anche di essere emotivamente coinvolta nel racconto di una vita profondamente intrecciata alla sua. Proprio per questo si rivela fondamentale il lavoro di scrittura operato con Chiara Nano, che consente alla regista di calibrare l’oggettività documentaristica al legame con Iolanda: ne emerge un equilibrio intriso di dolcezza, che vede la regista porsi sempre ai margini dell’inquadratura ma comunque presente con la propria voce, concedendosi qualche incursione colma di complicità familiare.
Il vero cuore del documentario è il ritorno a “casa” di Iolanda, dopo trent’anni di lontananza. La più classica delle illusioni degli emigrati – l’idealizzazione del Paese di nascita – viene ridimensionata dai contorni della realtà: il sogno di tornare a Vibo Valentia e comprare una bella casa sul mare come rivincita personale per trascorrere gli anni della vecchiaia lascia il posto alla consapevolezza che l’Italia non è più casa sua. Tutto è cambiato: le persone, le case, ma soprattutto lei stessa. E quando la vediamo scegliere di non voler tornare indietro, per la prima volta la vediamo libera. Perchè se la scelta di Iolanda di scappare dall’oppressione per ricercare una propria autodeterminazione era paradossalmente avvenuta attraverso una duplice coercizione di matrice patriarcale – l’intervento di un padre assente e un matrimonio combinato con un uomo sconosciuto, che le aveva pagato il viaggio per il Canada – e l’aveva condotta in un’apparente condizione di libertà, in realtà imbrigliata in molteplici gabbie di dolore e immobilità, adesso è lei la protagonista della storia. Della sua storia.
Miglior Documentario Internazionale a Radiograph of a Family di Firouzeh Khosrovani
La Giuria ha assegnato il premio al Miglior Documentario Internazionale a Radiograph of a Family, diretto dall’artista, cineasta e giornalista iraniana Firouzeh Khosrovani: un viaggio nella storia della rivoluzione iraniana attraverso le sue memorie familiari. La sua storia privata diventa metafora dei cambiamenti della società iraniana negli ultimi quarant’anni, dall’era dello Scià alla Rivoluzione Islamica, passando attraverso la guerra Iran-Iraq fino ai giorni nostri. Attraverso fotografie, lettere e voci dal passato, filmati di archivio e repertorio – familiari e non – Khosrovani narra la dualità della propria famiglia, scissa tra il laicismo del padre e la profonda convinzione religiosa della madre, mentre nella nazione si avvicina il momento della rivoluzione khomeinista: in un percorso a ritroso nel tempo, tra aneliti di libertà e legami inscindibili riprende vita una “micro-storia” che racconta il paese, le sue molteplici culture e il tentativo di superarle per rivendicare la propria autodeterminazione.
Khosrovani è divisa tra i due genitori, il suo Paese diviso in due anime, ma l’elegia che la regista narra non è valutativa bensì descrittiva e intima, una radiografia ma morbida e musicale, avvolgente e raffinata. Da questa dialettica emerge la stessa Firouzeh Khosrovani, iraniana e cittadina del mondo (ha studiato anche all’Accademia di Brera): “Sono il prodotto dell’insanabile contrapposizione tipicamente iraniana tra laicismo e ideologia islamica” ha detto la regista che, nutrita da due correnti divergenti, affronta la differenza con consapevolezza e comprensione, realizzando un documentario ammaliante e pieno di sfumature, tutto costruito sul montaggio di fotografie, riprese d’archivio e tre sole voci fuori campo. Un lavoro di découpage interiore che unisce fonti del passato e dialoghi reinventati, il già girato e un monologo riflessivo, in cui non c’è una “morale” da trarre ma una complessità da accogliere.

Menzione Speciale a Jouir (en solitaire) – Sex Relish (a solo orgasm)
Menzione Speciale al cortometraggio d’animazione Jouir (en solitaire) – Sex Relish (a solo orgasm) di Ananda Safo, laureata all’ENSAB (École Nationale Supérieure d’Art de Bourges). Un’opera delicata e potente che racconta con suoni e parole, colori e immagini ciò che spesso non vuole essere visto nè ascoltato: Jouir esplora l’autoerotismo e la masturbazione femminile attraverso le testimonianze di donne di diversa estrazione e età, intrecciate in una filigrana intima che trova respiro e vita nelle animazioni degli artisti coinvolti nel progetto. Un film necessario, che affronta i tabù e i pregiudizi sulla sessualità addentrandosi nei segreti e nelle sensazioni del piacere femminile con onestà e verità. Da non perdere.
Menzione Speciale a Nascondino di Victoria Fiore
Menzione Speciale il documentario d’esordio di Victoria Fiore, regista, scrittrice e montatrice con sede tra Napoli e Rio de Janeiro. Nascondino è un viaggio nel cuore pulsante di Napoli, un’immersione nelle profondità dei Quartieri Spagnoli. Il film si apre con una visione infernale sconosciuta ma al tempo stesso affascinante: i ragazzi dei Quartieri incendiano in un gigantesco falò tra i palazzi, proprio nel centro della città, gli alberi di Natale secchi, come demoni bambini coi volti sporchi di bitume, arrampicati sui resti di mura fatiscenti. La telecamera di Fiore si ferma poi su Entoni, e lo accompagnerà per i seguenti quattro anni in una discesa per gironi che dalle bravate nei vicoli dei Quartieri Spagnoli e i tuffi sul lungomare lo porterà ad essere allontanato dalla sua famiglia, tra assistenti sociali e fughe dalle case famiglia, fino al carcere minorile di Nisida. Insieme a Entoni cresce anche una disperazione che inizialmente non gli apparteneva: in quel ragazzo la sete di libertà e l’eccitazione per il futuro, così palpabili nell’euforia dei suoi dodici anni, scompaiono per lasciare spazio a un vuoto.

Ma Fiore non si limita a seguire Entoni: Nascondino unisce alla visione esterna della regista lo sguardo del ragazzino, che costruisce sè stesso e il suo personaggio mettendo in scena la sua quotidianità, le sue speranze per il futuro e i suoi stessi sogni. La regista tenta così di entrare nelle menti e nei cuori dei suoi protagonisti, esplorando le tante forze – complesse e talvolta contraddittorie – che li plasmano, per per mostrarci Napoli dall’interno, evitando un approccio sensazionalistico e distanziante. Sebbene questa gestione creativa delle immagini risulti a volte più posticcia che reale, più filtrata che spontanea, Nascondino esce dai confini del documentario per ridefinirsi come ritratto mitologico e spirituale della comunità che ruota attorno a Entoni. Fiore racconta l’umanità delle strade di Napoli nella sua verità tanto estasiante quanto straziante: i legami con la famiglia e la ricerca di riscatto, le speranze e i rimpianti, la fede e le processioni religiose, ma anche l’ombra della criminalità organizzata che ribolle e sussulta dietro ogni angolo e nelle trame di ogni storia, nel dolore per le tante figure paterne assenti e nello spettro del carcere del carcere, negli schemi di violenza e ritualità che si ripetono attraverso le generazioni.
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