
“In the Shadows”, di Erdem Tepegöz – Ravenna Nightmare 2021
Giunto alla XIX edizione, il Ravenna Nightmare Film Festival ha riaperto le porte della sua sala cinematografica al grande pubblico, mantenendo però una forma ibrida di fruizione grazie alla partnership con la piattaforma MyMovies. Una settimana di proiezioni e incontri – dal 31 ottobre al 6 novembre – tutti dedicati al “dark side of the movies”, cifra stilistica e fil rouge dell’intera programmazione del festival. Riduttivo, però, sarebbe identificare il Ravenna Nightmare col genere horror, che pur ne segna indelebilmente i caratteri; allora più che parlare di “genere”, a Ravenna si esplora l’intersezione tra i generi in qualche modo familiari alle atmosfere e ai topoi “dark”. Horror, distopico, thriller, fantascientifico, il carnet dei lungometraggi e cortometraggi in concorso si muove lungo questi punti cardinali fluidificandone i confini. Lo stesso vale per le altre categorie proposte dal festival: dai Nightmare d’essai ai classici, da Contemporanea a Ottobre Giapponese e Celebrazioni, tutti meticolosamente proiettati verso le zone d’ombra del reale, le alterazioni e le manipolazioni della normalità e l’esplorazione di mondi il cui accesso sembra essere negato. Anche quest’anno Birdmen Magazine è media partner del Festival.

In the Shadows di Erdem Tepegöz si posiziona a pieno titolo nella sezione distopica della dark side ravennese, una distopia di stampo classico utilizzata dal regista turco nella sua componente di chiave di lettura del mondo attuale. Lo slittamento dal mondo reale al mondo distopico della pellicola risente moltissimo dei temi orwelliani: protagonisti della vicenda sono gli operai di una fabbrica controllati a vista da un fitto sistema di videosorveglianza. Un proletariato inserito in un universo post apocalittico dove sembra non esserci altra classe sociale se non quella meccanica e digitale depositaria del controllo. Il regista fa dunque dei suoi lavoratori l’intero popolo del film, invitandoci a interrogarci su una condizione che sembra essere universale.

Ambientato in un tempo e uno spazio irriconoscibili, il film insiste nel presentarci un mondo in rovina privo di qualsiasi componente estetica gradevole: le scale di grigi e marroni che pervadono lo schermo, gli ambienti interni così come gli esterni, compongono un universo dove le macerie e la carica negativa dei nuvoloni grigi sembrano essere le uniche architetture artificiali e naturali possibili. Figlio del suo tempo, il film di Erdem Tepegöz risente molto dell’universo pandemico in cui è stato scritto, offrendoci un punto di vista immaginario ma calzante sulla ricerca ostinata del nemico in carne ed ossa, sul tentativo di identificare la causa delle proprie sofferenze con qualcosa di tangibile che però sfugge inesorabilmente al nostro campo visivo.
La ricerca ostinata della ragione della propria esistenza, il desiderio di mettere in discussione il sistema alienante in cui vive, raccontano solo in minima parte il confinamento pandemico vissuto dal protagonista e il bisogno collettivo di arginare l’emergenza. Combattere contro un sistema di schermi nel tentativo di scoprire chi ne veicoli i comandi, la presenza umana dietro la macchina, raccontano la più sottile presenza pervasiva degli schermi nelle nostre vite, il controllo co-causato di noi stessi e degli altri grazie alla giungla di dispositivi che schermano chi vi sta dietro. Cosa allora di più inquietante che scoprire la nostra presenza dietro la macchina?
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