
L’altro Neorealismo – 75 anni fa usciva Il bandito di Lattuada
Avvenuta la Liberazione, Ernesto ritorna da un campo di prigionia tedesco e trova la casa distrutta e la sorella scomparsa: dopo averne vendicato la morte, si dà alla macchia e diventa un fuorilegge, mostrando però presto una coscienza che i complici non gli perdonano. Il bandito (1946) di Alberto Lattuada è parabola criminale – degna di classici quali Il piccolo Cesare (1931) e Scarface (1932) – ma soprattutto umana, da avvicinare a capolavori del Realismo poetico francese come L’angelo del male (1938) e Alba tragica (1939). Ma è indubbio che rappresenti anche un tassello importante nel percorso verso l’affermazione del canone neorealista, né più né meno di Paisà (1946) di Rossellini e Ladri di biciclette (1948) di De Sica. Con questo film si entra a pieno merito nella storia del cinema mondiale.

E bisogna considerare che quando si appresta a girare la pellicola fra le strade di una Torino in macerie, Lattuada è poco più di una promessa: appena trentenne, una laurea al Politecnico, una moglie attrice più giovane e due film realizzati. Alle spalle può vantare sia una breve carriera di critico cinematografico per le riviste Corrente e Domus, sia l’esperienza come aiuto regista sui set di Piccolo mondo antico (1941) di Mario Soldati e Sissignora (1942) di Ferdinando Maria Poggioli. Dei suoi maestri serberà sempre un ricordo prezioso, ma senza nascondere che la vera scuola professionale risale alle visioni sul grande schermo: dal cinema muto tedesco a quello sovietico, dalle commedie hollywoodiane ai drammi francesi degli anni trenta. Una formazione continua e variegata che nei suoi primissimi lavori risulta vitale.
Il bandito nasce quindi dalla volontà di esprimere due urgenze: da una parte il collettivo slancio verso la verità che prenderà il nome di Neorealismo, dall’altra il personale amore per quel cinema internazionale che per alcuni anni il fascismo aveva vietato con miopia ideologica e strategia protezionista. Atmosfere, personaggi e temi dei generi cinematografici avvisi al regime, quali ad esempio il noir americano, esplodono in tutta la loro forza immaginifica nella sceneggiatura. Infatti, Lattuada convince Dino De Laurentiis (allora rampante collaboratore della Lux Film di Riccardo Gualino) a finanziare questa sorta di gangster-movie con protagonista un reduce. Ernesto è quindi interpretato dal divo Amedeo Nazzari, affiancato da un’Anna Magnani fresca di premi per Roma città aperta (1945).

Completano il cast il popolarissimo Carlo Campanini e Carla Del Poggio, lanciata ancora minorenne da De Sica in Maddalena zero in condotta (1941) e sposa di Lattuada nel fatidico aprile 1945. Le difficoltà di realizzazione de Il bandito sono di diverso tipo, a cominciare dal ritardo nel giungere di una cinepresa promessa dalla produzione. Aneddotica vuole che in assenza di attrezzatura più moderna e di batterie, il direttore della fotografia Aldo Tonti sia costretto a girare il film con una macchina a manovella dei tempi del muto, senza possibilità di registrare il suono, con la prospettiva di ridoppiare tutto in seguito. Ad ogni modo, il progetto va a buon fine ed esce nelle sale senza particolari problemi, confermando che dopo la guerra è possibile non solo riprendere a fare cinema con poco ma persino proporre novità e qualità.

La 1^ edizione del Festival di Cannes accoglie Il bandito in due modi molto differenti: la stampa nostrana lo biasima perché scelto in rappresentanza del Belpaese a scapito del già citato Paisà, mentre quella straniera saluta un’opera innovativa che mette subito in chiaro lo sviluppo di un nuovo stile tutto italiano. Si tratta in fondo di una schizofrenia non rara nella storia del nostro cinema, eppure rimane sorprendente la radicalità delle posizioni. Comunque con gli anni la fortuna del film si fa più generosa, arrivando a dedicare alla sua analisi alcune delle più belle pagine monografiche su Lattuada. In particolare, col tempo mutano il gusto e l’impressione suscitata da storie esplicitamente violente. Oggi il film è unanimemente apprezzato e studiato quale vertice della produzione dell’autore e non solo.
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