
Nòt Film Fest – Intervista a Tekla Taidelli, maestra dello street cinema
La regista milanese Tekla Taidelli vuole usare l’arte cinematografica per dare la voce alle persone marginalizzate, ignorate non solo dal grande schermo, ma anche dalla società. È nato così il suo progetto di street cinema che l’ha portata a dirigere film come Sbokki di vita, vincitore di RomaDoc Festival 2002, e Noise P-Rat in Act. La sua effettiva consacrazione arriva nel 2004 con il suo primo lungometraggio, Fuori Vena, selezionato al 58° Festival di Locarno e vincitore del 23° Sulmona Film Festival, che è stato capace di attirare l’attenzione della critica specializzata. Nel 2013 ha fondato una scuola di Street Cinema per trasmettere la sua filosofia ai suoi studenti. L’abbiamo intervistata al Nòt Film Fest, dove ha presentato in anteprima europea Il Capitano è fuori a pranzo, vincendo il premio come Miglior corto sperimentale.
Qual è stata la genesi de Il Capitano è fuori a pranzo?
Io sono una regista dal 2000 e praticamente ho sempre trattato temi sociali. Anche il primo film, incentrato sulle tossicodipendenze e nello specifico sull’eroina, vedeva protagonisti attori provenienti dalla strada. Nel 2013 ho fondato la mia scuola, la Scuola di Street Cinema, dove ho insegnato ai miei alunni la mia idea di cinema e dove insieme diamo voce agli invisibili attraverso testi autorevoli. Ad esempio abbiamo fatto l’Amleto e ora, con Il Capitano è fuori a pranzo, anche Bukowski con gli Homeless. Si tratta di un corto scolastico, ma partecipo anch’io come regia.
Io sono alla costante ricerca del bello. Io son convinta che il bello si manifesta solo quando non hai niente e dividi quel poco che hai. È un do ut es, io do loro visibilità e voce e loro mi restituiscono bellezza. Come insegno ai miei ragazzi, avvicinarsi alla gente di strada è un lavoro di fino. Spesso si ha la triste idea di chiamarli “casi umani”, ma a me piace chiamarli, per usare le parola dello stesso Bukowski, “esseri umani” nel vero senso della parola e in quanto tali devono essere trattati. Un inviato de Le Iene è andato dagli Homeless camuffandosi da Homeless e a me fanno arrabbiare questi atteggiamenti perché sono delle mancanze di rispetto.

Io mi avvicino sempre in punta di piedi a queste realtà, perché son comunque persone di strada, ma una volta guadagnata la loro fiducia possono esserci tante belle emozioni. Io ogni Natale vado in giro a consegnare coperte, da ragazzina ero punk e ho vissuto per strada perciò so quanto possano essere difficili gli inverni. In questi miei giri ho incontrato Franco, che ha recitato nel mio corto sull’Amleto e mi ha presentato poi i protagonisti de Il Capitano è fuori a pranzo.
Io penso ci sia un’università della vita e una della strada. Fai l’università della vita laureandoti con l’alloro mentre quella della strada è possibile solo stando sulla strada. Io, grazie al mio passato punk, ho imparato dei valori che oggi non ci sono più. Questi valori sono dei dettami universali che valgono dovunque e con chiunque. Il percorso più bello è quello che faccio per avvicinare le persone con cui mi voglio interfacciare e scelgo sempre dei pezzi che siano adatti a loro. Nel caso degli Homeless di Il Capitano è fuori a pranzo, questi non conoscevano Bukowski, ma quando hanno iniziato a leggerne i testi vi ci sono appassionati, perché vi ritrovano la loro esperienza di vita.
Il brano scelto riguarda in un certo senso anche il COVID per i riferimenti, ad esempio, ai locali chiusi. Noi abbiamo girato il corto immediatamente dopo la pandemia e nelle piazze vi era un grande segno di vuoto. La solitudine dell’essere umano espressa da Bukowski nei suoi testi ci sembrava calzante in questo frangente. Gli Homeless son comunque i padroni della strada e hanno vissuto meglio di noi il lockdown.

Come ti sei avvicinata allo street cinema?
Io ero punk e ho vissuto anni interi per strada. Facevo la scuola di cinema e mi lavavo dal benzinaio per farti un esempio. Ho avuto un compagno morto purtroppo a causa dell’eroina e io volevo lasciare la scuola di cinema, ma la mia professoressa, che io chiamo “Mamma Cinema”, mi ha detto di fermarmi, spiegandomi come la morte per l’artista fosse un momento di crescita spirituale e creativa. Mi ha spinta a fare un documentario sul mio compagno ma anche a raccontare la mia esperienza di vita, visto che io vivevo nelle cascine occupate, facevo i rave party e poi riuscivo a andare a scuola. Il risultato è il mio primo documentario, Sbokki di vita, premiato al Roma Doc Festival da Mario Monicelli nel 2000. Dopo ho proseguito con Fuori Vena, continuando a parlare di strada e disturbando il sistema come ho sempre voluto.
Io mi definisco underground, in Italia penso di essere la principale regista di strada più importante perché il mio film Fuori Vena è una pietra miliare nell’underground. Avevo queste competenze e ho deciso di fondare una scuola per trasmetterle. Nella scuola abbiamo un vero e proprio manifesto: solo attori di strada, solo testi classici per dare voce autorevole e bellezza alla strada. Non sono importanti i mezzi, se il messaggio è forte va bene anche il Nokia. Vorrei riuscire a realizzare un documentario in cui spiego l’origine dello street cinema. Quando ho girato l’ultimo cortometraggio a Milano, che vedeva la partecipazione dei riders, son venuti anche i giornalisti sul set perché sapevano l’importanza.
La cosa più bella dello street cinema è la restituzione, quando fai loro vedere il corto in posti assurdi. Agli Homeless, ad esempio, ho messo le casse sul letto e proiettato con un materasso. In Grecia, al Festival del Peloponneso, ho invitato i pescatori, con cui avevo realizzato il cortometraggio, e li ho portati sul palcoscenico con me.

Come funziona la scelta dei testi?
I primi corti usano La Tempesta di Shakespeare, ma già prima di scegliere il testo sapevo di voler lavorare con i migranti. Nel caso di Kerouac mi chiedevo chi fosse costantemente on the road, come suggerisce il titolo del suo libro, al giorno d’oggi e per questo ho scelto i riders. L’obiettivo è riuscire a prendere un testo, collegarlo a una realtà di strada e loro lo capiscono come se fosse la loro esperienza. Per la scelta dei testi lavoro con un mio ex allievo, ora mio assistente, colui che mi ha suggerito un’opera di Pasolini per il mio lavoro con i pescatori, dedicato al tema della libertà.Prendo il testo, estrapolo i brani, scrivo la sceneggiatura, la mando ai miei allievi e poi inizio a cercare gli attori. Voglio far parlare le voci più umili con la parole di un poeta.
Io, parlando il linguaggio della strada, riesco ad avere un rapporto diverso con queste persone da quello che ci si potrebbe aspettare: qualcosa di più stretto e umano, basato sul rispetto reciproco. Io non li vedo come ghettizzati, io li elevo e do loro voce.
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Quanta boria ha messo su la Tekla…