
Rifkin’s Festival – La dicotomia dell’arte e dell’essere
Il momento in cui Mort Rifkin è stato davvero felice è quello in cui insegnava cinema, il cinema con la C maiuscola, dei maestri europei che qualcosa da raccontare lo avevano. Il presente e il passato, la giovinezza e la vecchiaia, il genio e la mediocrità, le ideologie e le tracotanti e vuote posizioni buoniste ingigantite dai media sono alla base della riflessione che Woody Allen mette in bocca al suo alter ego – Mort appunto –, protagonista del suo ultimo film, Rifkin’s Festival, nelle sale italiane dal 6 maggio 2021.
Mort Rifkin (Wallace Shaw) è un ex professore di cinema alle prese con la stesura del suo primo romanzo, che non sembra essere mai pronto. Accompagna la moglie Sue (Gina Gershon), press agent, al Festival del Cinema di San Sebastian dove la donna deve seguire passo passo la promozione del nuovo film di Philippe (Louis Garrel), giovane promessa del cinema francese. Mort, annoiato e ormai disinteressato alla settima arte che non sembra più rispecchiare quella che lui amava ed insegnava, colto da improvvisi e inspiegabili dolori al petto, prende appuntamento con la dottoressa Jo Rojas (Elena Anaya). Ed è così che lentamente – ma non inaspettatamente – i coniugi si allontanano alla ricerca di qualcosa, o qualcuno, che possa farli sentire nuovamente vivi.

L’analisi del film di Allen si erge sul dualismo. Una dicotomia persistente che ci mette davanti ad una visione cara e già esplorata dal regista newyorkese, che in questo preciso caso non prevede alcun lieto fine. L’uomo maturo deve accettare la sua mediocrità e far pace con la puerile – ed errata – convinzione di poter essere il nuovo Proust o Dostoevskij. La dicotomia prevede un continuo ed instancabile paragone tra il passato che non può tornare – l’epoca d’oro della vita vissuta – e l’incertezza di un presente e di un futuro che nel loro grigiore si fanno sempre più sfocati e rarefatti. Mort ha bisogno di rievocare, nel bene e nel male, i momenti salienti della sua esistenza, ma anche di prevedere, quasi alla ricerca di una sicurezza inesistente, verso quale deriva si spingeranno i suoi rapporti sociali. Imperfetto, inadatto, incompreso ed incomprensibile, spesso egoriferito, viene abbandonato con brutalità o con dolcezza dalle donne che gli hanno curato il cuore. Persino la morte, con sagace crudeltà, lo rinnega e lo lascia nel limbo destinato a chi dalla crisi non esce, ma ci si immerge fino al collo. Il vecchio professore è solo, circondato da amici, colleghi, familiari che non lo ascoltano, esempio ne è il tentativo, miseramente fallito di dialogare con Philippe e Sue seduti al tavolo di un ristorante, e solo resterà, a parlare e raccontarsi ad uno psicanalista non ben identificato che probabilmente è situato in ogni spettatore al di là della quarta parete.

E il cinema? E il festival del titolo? La dicotomia persiste e la critica si acuisce diventando sempre più feroce. Il cinema incarnato dal giovane e promettente Philippe è impregnato della pochezza e della disturbante eco di un suono sordo, artefatto e caricaturale, così come lo è un festival che di appeal ne suscita ben poco, popolato da giornalisti modaioli che della settima arte conoscono la superficie e le tendenze tematiche che portano sulla cresta dell’onda pellicole che sventolano baluardi fatiscenti di tematiche sociali stucchevolmente esasperate e affrontate senza alcuna profondità. In contrapposizione, destinato a prendere piede nel flusso di pensieri e di ricordi di Rifkin, è il cinema d’autore, quello che l’immaginazione dell’autore riporta e modella sulle sue esperienze di vita. Ed allora eccolo il vero festival, quello che riunisce Godard, Fellini, Bergman e Bunuel, non attraverso i loro “ologrammi” come in Midnight in Paris, ma attraverso le loro immotali e memorabili scene di cui i compagni di viaggio di Mort – oltre a lui stesso – diventano assoluti protagonisti.

In una realtà di relazioni complicate, di incontri fugaci, di tempi troppo maturi o troppo acerbi, l’unica consolazione, il solo rifugio – accogliente o ostile che sia – sembra essere il cinema che in maniera meno schizofrenica de La rosa purpurea del Cairo continua a dimostrarsi finestra sul mondo, anche su quello interiore denso di perdite, sconfitte e critiche, ma pur sempre onesto.
Ironia e comicità si tingono di amaro a sostegno di un discorso con cui Woody Allen – proprio come nella sua autobiografia A proposito di niente – vuole solo esprimere il suo punto di vista senza puntare il dito contro nessuno. Mort e Philippe sono le due facce di quella stessa medaglia che si chiama mondo del cinema e che non ha perso occasione per accanirsi contro “la strega” di turno da bruciare sul rogo.
Allen, seppur con il suo intramontabile e inossidabile cinismo, in una pellicola che sembra tirare le fila di una cinematografia lunga quasi sessant’anni, mostra una certa velata ed impenetrabile tristezza, forse mista a stanchezza che lo conduce a quella fine annunciata in Hollywood ending, e svariate volte già vissuta come un contrappasso beffardo di quella losca figura nera che troppe volte si è sentita presa in causa.
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