
L’ultimo Paradiso: la conquista della libertà
(Attenzione: l’articolo contiene spoiler)
Parlare di attualità parlando del passato: a cinque anni dal suo film d’esordio, All’improvviso Komir, Rocco Ricciardulli torna alla regia con L’ultimo Paradiso, pellicola distribuita da Netflix, prodotta e interpretata da Riccardo Scamarcio, che collabora anche in sceneggiatura. L’ultimo Paradiso, ispirato a un fatto di cronaca, ci proietta in una realtà rurale, quella di un paesino della Puglia negli anni Cinquanta, in cui vige un sistema fondato sulla sudditanza e sullo sfruttamento dei contadini da parte dei proprietari terrieri. Sebbene ad oggi esista una legge che fa del caporalato un reato, i meccanismi di oppressione ed emarginazione di determinati gruppi sociali non sono estranei alla realtà contemporanea, ed è questo presupposto che fa della pellicola una narrazione attuale.
A Ciccio Paradiso (Riccardo Scamarcio, che qui interpreta due parti), bracciante dal temperamento ribelle, la situazione sta stretta: l’uomo si arrischia a sfidare l’autorità di Cumpà Schettino (Antonio Gerardi) su ogni fronte, lottando per un miglioramento delle condizioni lavorative e intrattenendo una relazione extraconiugale con Bianca (Gaia Bermani Amaral), la figlia di Schettino.

La pellicola si costruisce sul dualismo potere/impotenza, in un crescendo di prevaricazioni che culmina in violenze di cui non vediamo l’atto esplicito: le atrocità perpetrate dai potenti sono cosa nota a tutti, in paese, eppure l’omertà regna incontrastata, e quell’orrore che è ben intuibile rimane confinato nello spazio del fuori campo, del sapere senza voler vedere.
La posizione di potere di Cumpà Schettino sulla popolazione contadina è ben evidenziata in una scena che mostra il padrone, fuori fuoco, osservare dall’alto i braccianti ribelli sotto la sua finestra; la superiorità dell’oppressore sembra messa in discussione quando il gruppo si volta verso di lui e si allontana, sottraendosi al suo sguardo, rendendo manifesta nell’uscire fuori campo quella voglia di riscatto e libertà che muove l’intera narrazione. Libertà contro schiavitù, iniquità contro giustizia, passione amorosa contro doveri familiari; i protagonisti de L’Ultimo Paradiso sono lacerati dalle dicotomie, vengono trascinati da esigenze contrapposte, e l’urgenza di scegliere da che parte stare non lascia scampo. Ogni scelta si sconta, ogni colpa si paga. La condizione delle donne è crudelmente reale: destinate a subire, confinate ad un ruolo da testimoni dell’efferatezza che si compie a partire dalla cerchia familiare, il loro dolore trova l’acme nei pianti e nelle urla mute, inudibili, coperte dal malinconico suono di un pianoforte. Si tratta di una sofferenza che non può essere espressa (perché troppo intensa? Perché in una simile realtà patriarcale non ce n’è lo spazio?) ed è nel silenzio che si svolge anche la loro ostinata protesta nei confronti delle forze dell’ordine.

In questo contesto di tacita accettazione e di potenti che distruggono vite con la noncuranza con cui schiacciano ragni, a sostituire Ciccio non poteva essere che il suo doppio, Antonio: il suo gemello dal Nord, che nella parte finale del film, nel momento in cui decide di colmare il vuoto lasciato dal fratello, esce dall’inquadratura da dietro la macchina da presa proprio come Ciccio aveva fatto nella prima scena, e decide di tornare al suo paese d’origine. Come il protagonista de La luna e i falò di Pavese, di cui vediamo una copia nella valigia di Antonio e che ne anticipa il destino.
Ciò che emerge in diversi punti della pellicola è una sceneggiatura che si affida molto ai dialoghi, andando a rimarcare gli intenti già perfettamente evidenti del film. Il dialogo didascalico in cui Antonio parla a Schettino delle dinamiche di potere e della libertà o la necessità di Bianca di sottolineare la perenne vicinanza di Ciccio a lei anche in sua assenza, dopo che ci è stato appena mostrato un flashback che li vede insieme, sottraggono efficacia alle scene. L’impressione è quella di una scrittura che costringe il film nella dimensione verbale, non lasciando che a parlare siano le immagini.

Se la regia sobria di Ricciardulli e la fotografia luminosa e saturata degli esterni sono manifestazioni di un intento realistico che immerge lo spettatore nella calura dei campi del Sud Italia, il finale si rivela inaspettatamente surreale: dopo un colpo di scena forse un po’ forzato e poco necessario ai fini della narrazione, Bianca rivede Ciccio in Antonio, coronando nelle sue fantasie il sogno d’amore distrutto e seppellendo il trauma sotto l’apparenza identica dei due, il vestito rosso promesso dall’uno a suggello dell’unione con l’altro. Il film si chiude con uno sguardo di Antonio in primo piano: uno sguardo che restituisce speranza, a testimonianza del fatto che uno come Ciccio ci sarà sempre, e che, per quanto si cerchi di opprimerlo, il bisogno di libertà e giustizia continuerà a essere perseguito.
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