
Radio International – Tre media, cinque puntate, un teatro unico
È possibile parlare di teatro, radio e serialità contemporaneamente? Da questa e da altre domande prende le mosse Radio International, serie teatrale di Hamid Ziarati e Beppe Rosso (quest’ultimo anche regista) prodotta da ACTI Teatri Indipendenti di Torino e in scena fino al 31 ottobre nella città sabauda in prima nazionale, presso San Pietro in Vincoli Zona Teatro.
Una qualunque redazione di un’emittente radiofonica, ai giorni nostri: tra difficoltà economiche e gestionali, conflitti etici ed interpersonali, momenti di euforia e di sconforto, un gruppo ristretto di giornalisti prova a rilanciare il proprio lavoro. Sullo sfondo si intersecano la vicenda di una bambina scomparsa, la testimonianza di un senzatetto iracheno che in realtà non dice tutta la verità e una serie di fake news più o meno dannose per la risoluzione del caso e, di riflesso, per il fallimento della stazione radio. Il tutto amalgamato da temi di scottante attualità che investono tanto i personaggi quanto il pubblico, riguardanti le migrazioni (il progetto è finanziato attraverso un bando europeo di teatro transfrontaliero, migrACTION), il terrorismo e le paure contemporanee.

Lo spettacolo, inizialmente pensato per essere assemblato ed allestito a partire dal marzo scorso, ha trovato nelle recenti e diffuse difficoltà produttive che hanno investito l’intero settore un inaspettato stimolo per il processo creativo collettivo: partendo nei fatti da bozze di scene, e ponendo una forte attenzione sulla pratica dell’improvvisazione e sulla creazione dei propri pezzi radiofonici (come avviene spesso, per esempio, in Radio Rai), il cast coadiuvato da autore e regista ha sostenuto tre ore al giorno di prove via Zoom per tutta la durata della quarantena, riuscendo nell’intento, apparentemente partadossale ma stando ai risultati finali pienamente funzionale e riuscito, di simulare i vari collegamenti, le dirette, le comunicazioni interne ed esterne ad uno studio radiofonico reale, per definizione caratterizzato da cuffie, microfoni, schermi e interazione mediata tra colleghi.
Il risultato, del quale abbiamo avuto modo di godere, purtroppo, solo per quel che concerne la seconda puntata, dà vita a un’esperienza piena, assolutamente credibile e rilevante sia dal punto di vista estetico che sotto il profilo narrativo (pur nella successione a tratti, dentro al testo, di scene forti e qualche situazione caratterizzata da un lieve ripiegamento), oltre ad una coesione e un’intesa tra gli interpreti – fra i quali spicca una magnetica Barbara Mazzi – pienamente godibile ed efficacemente trascinante, che vede al suo interno anche l’esordio di Adriano Antonucci.

Il vero grande discorso dell’allestimento, però, ruota intorno alla principale particolarità di Radio International, vale a dire la volontà di porsi come baricentro di un triangolo che vede ai suoi vertici (o forse, meglio, come suoi lati) tre media apparentemente molto distanti tra loro come la radio, il teatro e la serialità. Se da un lato risulta oggettivamente difficile stabilire quanto questo connubio a tre risulti pienamente riuscito, soprattutto senza poter visionare tutte e cinque le puntate teatrali prima di esprimere un giudizio, d’altra parte è innegabile riconoscere una forte carica propulsiva positiva in un intento progettuale simile: seppure sorga il dubbio, ad esempio, per cui la divisione in puntate possa essere dettata per lo più da ragioni di lunghezza che da dichiarati espedienti narratologici, lasciando sul finale la narrazione completamente aperta e quasi non-finita, allo stesso tempo quest’ultima vive di per sé di una forte natura anche episodica nella cornice e quindi volutamente “componibile”, non contrastando così facendo con la volontà di sospensione episodica. Radio e teatro, infine, così come radio e serialità, manco a dirlo, vivono di uno scambio vivo e fecondo che meriterebe sicuramente approfondimenti più numerosi; in questo senso il grande merito dello spettacolo diviene allora proprio quello di riaccendere con eleganza l’attenzione su questi legami, rilanciandoli contemporaneamente e mostrando forse proprio in questo modo come, in tempi diversi e più duri del solito, alzare l’asticella in uno sperimentalismo che coinvolga anche i soli contenitori non solo è possibile, ma può restituire stimoli artistici e idee di spettacolo nuove e non forzose, oltre a pièce pienamente coinvolgenti e indiscutibilmente riuscite.
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