
Alex Garland – La naturale sconfitta dell’uomo
Quello di Alex Garland è un universo che corre costantemente su due binari paralleli, pronti a intersecarsi con conseguenze tragiche, se non apocalittiche. Che si tratti di un romanzo, una sceneggiatura, o una regia cinematografica, una dicotomia costante vede raffrontare un’umanità che tenta di elevarsi al ruolo di divinità, con il suo contraltare naturale (o tecnologico), deciso a rivendicare il proprio dominio. Entro i confini di questa fucina creativa, i personaggi vengono immortalati nel tentativo di creare un’esistenza altra, un microcosmo alternativo in cui nulla, nemmeno la morte, può interferire. Un’aspirazione divina che reduplica il fuoco creativo del cinema, scatola di desideri e illusioni in cui tutto è considerato reale solo perché visibile e riproducibile. Per mezzo di uno schermo la creazione di mondi funzionali e simulativi supera qualsiasi verità, e così, attraverso le proprie opere, Garland designa personaggi e situazioni la cui sconfitta finale, più che alla resa catartica dello spettatore, ambisce a una funzione critica nei confronti della società contemporanea. Una visione sarcastica, questa, filtrata dalla transmedialità dell’arte che Garland – londinese, classe 1970 – eredita dal padre Nicholas, vignettista politico. L’autore entra pertanto nell’universo cinematografico traducendo in parola scritta l’inconscio contemporaneo e l’immaginario collettivo. Così è per 28 giorni dopo (Danny Boyle, 2002), horror fantascientifico in cui il corriere irlandese Jim (Cillian Murphy) è chiamato a sopravvivere in un mondo abitato da esseri umani infettati e trasformati in zombie, perfetta visione speculare dei riot dilaganti in tutto il mondo per governi inetti e sordi ai bisogni del proprio popolo. Un desiderio umano di elevarsi a un ruolo divino, superando i limiti della medicina e della conoscenza, che si reitera nelle sceneggiature di Sunshine (Danny Boyle, 2007), Non Lasciarmi (Mark Romanek, 2010) e nella regia di film come Ex-Machina, Annientamento e della recente serie-tv Devs.
La morte al lavoro
Cocteau affermava che “il cinema è la morte al lavoro” e lo sguardo di Alex Garland contempla e testimonia con sublime attrazione tale esercitazione a discapito dell’essere umano. A farne le spese sono soprattutto i suoi protagonisti, astanti ignari di una morte imminente, riflessa nell’elemento naturale da dominare. I suoi sono (anti)eroi destinati a soccombere a quella figura mortifera che vogliono superare (Non Lasciarmi, Ex-Machina, 28 giorni dopo), conoscere (Annientamento), o evitare (Sunshine). Le sceneggiature di Garland fungono così da transfert di paure e sogni utopistici (come la sconfitta della morte) per mezzo di studi, esperimenti e tecnologie pronte a ribellarsi. Il traguardo finale è vicino, a un palmo di mano, ma è proprio in questi istanti sospesi che ognuno di questi Icaro del ventunesimo secolo vedranno sciogliere le proprie ali di conoscenza ed estrema sicurezza, per essere rigettati tra le braccia della morte. Esempio lampante è Non Lasciarmi. Ispirata all’omonimo romanzo di Kazuo Ishiguro, la sceneggiatura di Garland segue filologicamente quanto narrato dalla sua controparte letteraria. Il destino dei suoi protagonisti è già segnato dalla mutilazione dei loro cognomi. Kathy, Ruth e Tommy non hanno genitori da cui ereditare il nome di famiglia; il loro cognome si riduce a una sola lettera, un’identificazione limitata ma sufficiente per dei ragazzi la cui nascita asservisce alla deprivazione fisica di organi destinati a chi un nome e un cognome ce l’ha. Kathy, Ruth e Tommy sono cloni, merce di scambio con la morte. Alex Garland affonda a pieni mani nell’opera di Ishiguro riuscendo a offrire la disfatta dei tre in nome di una razza umana che, pur sfiorando lo stato supremo di dominio sulla morte, perde la propria umanità per mostrarsi nella sua mostruosità.
Automa(mente) umano
Come il clone più umano dell’umano stesso, a regredire l’umanità allo stato di perdente e restaurare l’ordine delle cose, subentra nell’opera di Alex Garland la natura in tutte le sue forme (Sunshine, The Beach), anche quella aliena e soggetta a mutazione (gli zombie di 28 giorni dopo, e il Bagliore di Annientamento). Per quanto essi tentino, nessuno dei personaggi modellati da Garland riuscirà a scalfire la morte in atto: Tommy e Kathy non si salveranno dal loro estremo destino per il quale sono nati; la biologa di Annientamento non sconfiggerà il bagliore e non salverà i cambiamenti fisici (siano essi tumori, o parassiti) che distruggono le persone che la circondano; Nathan in Ex-Machina non verrà idolatrato dalle macchine a cui ha infuso la vita. L’uomo che tenta di essere Dio rimane soggiogato dalla sua sete prometeica di successo e conoscenza. In questa guerra aperta alle leggi della natura, i personaggi di Garland si elevano allora a proiezioni del lavoro del regista – o dello scrittore – come creatori di una nuova realtà che auspicano di controllare. Ciò che non comprendono è che anche in questo mondo – proiezione speculare e diegetica di quello reale – il loro rimane un ruolo subalterno.
Se in Ex-Machina l’uomo investito da una missione divina si prepone la creazione di un sostituto alla propria specie, Annientamento vive dei retaggi lontani, ma comunque influenti, di The Beach. Come nel romanzo firmato sempre da Garland (e tradotto in film da Danny Boyle) Lena giunge nell’Area X rimanendo incantata e sedotta dall’estetica particolare di quel mondo. La biologa si ritrova a seguire un sentiero tracciato dal personaggio di Richard nel romanzo del 1999, scontrandosi con una natura prima complice poi del tutto ostile. Non più Eden paradisiaco, ma infernale laboratorio sperimentale di mutazione genetica, la natura mostra la sua vera essenza – nello stesso modo in cui vengono rivelate le vere intenzioni di Ava in Ex-Machina – attraverso un video registrato. Lo schermo funge da proiezione del desiderio atavico di supremazia dell’uomo sulla natura. Risulta pertanto costante in Garland l’impiego di superfici trasparenti quali bicchieri, finestre, vetrate e schermi in qualità di simboli del doppio e del riflesso anomalo e imperfetto di esseri umani destinati alla perdita di memoria e della propria personalità. Sono superfici che fanno da scudo e interferenza disturbante nella ricerca della verità. Veicolo di rarefazione del visibile, nello svelamento di un dato corpo, esse non ne rivelano mai la sua immagine perfetta, quanto duplicata e ricolma di significati nascosti.
L’operato di Garland è l’ultimo degli esempi di quelli che Deleuze denomina “cinema-cervello”, produzione strutturante su un livello diegetico in cui viene messo in crisi il soggetto e la sua realtà. L’uomo viene qui catapultato in un universo distopico e utopistico dal quale acquisisce un’autoconsapevolezza circa il suo essere protagonista di una favola pronta a tramutarsi in incubo. Una favola ammantata di tragedia che Garland racconta quasi sempre in maniera semplicistica nella sua strutturazione degli esistenti. Edulcorando i propri schemi narrativi con una sottrazione di complessità e moltiplicazione dei vari livelli di intreccio, Garland punta su un unico nucleo attanziale. A metà strada tra esplorazione scientifica e filosofica, è attraverso gli obiettivi e i desideri che si prefissano i suoi protagonisti che il regista sviluppa un punto di vista dominante e nel quale lo spettatore ritrova nascosto un inconscio collettivo fatto di aspirazioni e sogni di supremazia. Un mondo che incarna alla perfezione l’ambiguità perturbante generata dall’avvento di un universo iper-umano, nel quale il bene e il male sono spesso difficilmente distinti.
Apoteosi del cinema post-moderno dove la realtà e la finzione si mescolano violentemente, e la stessa prospettiva temporale non è più capace di contraddistinguere tra ciò che è futuro, passato o presente, l’opera di Alex Garland è un labirinto senza uscita. I suoi esistenti tentano di scappare in sella alla propria ostentata conoscenza, o per mezzo di medium tecnologici, o artificiali (la droga di The Beach). Ma è nella loro esaltazione divina e critica che finiscono per isolarsi ed essere sempre più soggetti alla rivolta della natura, l’unica a poter rivendicare un’essenza divina.
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