
Martha Graham, danzatrice moderna tra due superpotenze | Speciale Graham
Martha Graham, tra danza e diplomazia, si fa artefice di una moderna concezione di danza, che combina vitalità del corpo e storia del presente. Nello speciale a lei dedicato, riflettiamo anche sul suo ruolo di ambasciatrice culturale, coinvolta nelle dinamiche internazionali della Guerra Fredda.
Già in qualità di allieva della Denishawn, Martha Graham si sente imbrigliata in un contesto artistico imbevuto di esotismo e di schemi favolistici, distanti da quel moto interiore che la induce a preoccuparsi degli affanni di una società in balia dei grandi eventi del Novecento.
Fondata la propria compagnia nel 1926, Graham è libera di appassionarsi alle vicende dei nativi americani, di cui studia spiritualità ed esaltazione religiosa, per poi affrontare con coraggio e lucidità il mito della wilderness, la frontiera selvaggia a cui tanti americani, da Thoreau ai conservazionisti di vario tipo, avevano già guardato con nostalgia. La sua visione rispetto alla storia americana è sempre problematica: il suo cruccio intellettuale è connettere i fenomeni del passato alla realtà presente, nell’ottica di decifrare una specifica cultura nazionale. Nonostante la ricerca artistica porterà Graham ben oltre il ciclo americano, verso forme di espressionismo e studi che attraverso la psicanalisi si radicano nella potenza della mitologia antica, la rievocazione della storia passata dell’America muta lentamente in partecipazione attiva alla storia presente che si fa politica.
Infatti, sebbene nota per la rivoluzione del movimento che attraverso la dialettica dei contrari Contraction-Release ha rinnovato in misura cospicua la danza moderna, l’eredità di Graham conserva anche un personalissimo modo di intendere il ruolo dell’artista ben oltre il palcoscenico, tra danza e diplomazia. Nelle tensioni di un mondo schiacciato dal bipolarismo, Martha Graham si muove come pedina della scacchiera diplomatico-culturale della Guerra Fredda. Il coinvolgimento dell’artista nelle dinamiche internazionali non sorprende: da un lato, Martha è profondamente connessa alla storia culturale americana in cui rintraccia le origini della sua formazione; dall’altro, la natura stessa della sua concezione di movimento è ontologicamente intrecciata alla nozione di evento. C’è un legame inestricabile tra il funzionamento del muscolo del corpo umano, la sua fluidità, la sua forza, e le vicende quotidiane che condizionano il corpo in movimento: queste cause propulsive non si limitano alla dimensione del singolo, ma viaggiano attraverso le notizie dei giornali, le tensioni sociali, le fluttuazioni di sistema che poggia su un precario equilibrio di potenza.
La risposta a questa sensazione quasi agonizzate di impotenza è certamente la danza, che le consente – attraverso il ritmo di un respiro profondo e consapevole – di rivendicare con forza la propria presenza. Ma non solo. Per la giovane danzatrice della Pennsylvania, che già negli anni Trenta è riconosciuta come leader della danza moderna internazionale, l’urgenza non è solo estetica, ma anche politica. Assieme a Doris Humphrey, Charles Weidman e Hanya Holm, Martha Graham combatte per il trionfo dell’estetica sulla politica, mai per una cesura radicale tra le due sfere, consapevoli che una reale rivoluzione nella danza debba passare per una revisione radicale delle strutture gerarchiche in una società ancora divisa per genere, sesso, razza e classe. Se il modernismo della danza americana degli anni Trenta si rintraccia anche nella commistione con l’azione politica, la partecipazione di Graham a questo intreccio va ben oltre, e la conduce fino al nodo gordiano delle instabili relazioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica.
Già nel 1936, Graham rifiuta di danzare in occasione dei Giochi Olimpici di Berlino, intendendola come una forma di connivenza con la Germania Nazista e in segno di protesta solidale con gli artisti perseguitati. Nel 1947, collabora con il Dipartimento di Stato per la ricostruzione nei paesi europei più colpiti dalla distruzione degli anni di guerra, organizzando festival ed esibizioni; durante il periodo bellico, infatti, era riuscita a concepire fino a cinquanta nuove coreografie, mantenendo costante il suo tributo all’eredità americana con satira, ironia e un coinvolgimento emotivo che la riporta sempre al centro delle vicende del suo paese. Con il mondo della danza che attende con trepidazione le sue esibizioni, e i teatri di New York in perenne sold-out, la compagnia di Martha Graham continua negli anni ‘50 a girare per l’Europa, contando sui finanziamenti della famiglia Rothschild; il Dipartimento di Stato Americano, abituato a ridimensionare i fermenti culturali nella gabbia della compattezza dei blocchi, vede nella figura di Graham una risorsa diplomatica rilevante. Nel 1955, Dulles e Einsenhower, pur non comprendendo a fondo i meriti della rivoluzione culturale messa in atto da Martha Graham, la nominano ambasciatrice culturale: nei suoi viaggi in Oriente rilascia interviste, esplora i paesi che visita con brillante curiosità, è instancabile nelle performance nonostante la fatica dei lunghi viaggi.
E’ indiscutibile che i progetti statunitensi vadano inseriti in una nuova fase della Guerra Fredda, avviatasi con la morte di Stalin, abbracciando – per dirla con Said – le armi dell’imperialismo culturale; certamente i fondi destinati alla tournèe della compagnia rientravano in questo progetto di distensione che distogliesse l’attenzione internazionale dal militarismo e dal consumismo americano imperante. Una gran fetta delle performance della Compagnia, come i noti Frontier e Appalachian Spring, erano il prodotto di contesto culturale occidentalizzante, in cui la narrativa del sogno americano acquisiva un carattere archetipico.
Eppure, qualcosa di più universale permise a Graham di essere apprezzata anche nell’Est del mondo e ben oltre le strategie geopolitiche: qualcosa nel suo modo di usare il corpo in connessione con lo spirito attraverso il respiro, qualcosa nel suo contrarsi e lasciare andare, qualcosa che c’era nelle lezioni di St. Denis come nelle arti marziali e nel teatro orientale. Né egemonia culturale né astratto espressionismo, ma una tensione vitale che si fa materica, e dalla mente arriva al terreno attraverso lo sforzo fisico, e così diventa bellezza universale.
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