
Lo schianto col reale: la compagnia OYES al Teatro Franco Parenti
Il teatro Franco Parenti di Milano ha ospitato dal 5 al 17 novembre lo spettacolo Schianto interpretato dalla compagnia Oyes della stessa città. A Stefano Cordella si devono l’ideazione e la regia, mentre la drammaturgia è un coinvolgente lavoro collettivo tra Francesca Gemma, Dario Merlini, Umberto Terruso e Fabio Zulli, a loro volta attori in scena.
Sul palcoscenico sono presenti pochi ma significativi oggetti: due sgabelli, un pacchetto di sigarette ed uno specchio frantumato, il quale riflette e distorce il riflesso del pubblico. Lo specchio assume una connotazione importante sin dall’inizio della narrazione: è chiaramente una soglia, un elemento sacro che separa due parti del palco e contribuisce a creare un doppio filone narrativo tra le vite dei diversi personaggi.
La vicenda si apre con l’incontro tra un tassista sognatore e irriverente ed un uomo disilluso e ostile, che riflette col proprio fisico tutta la sua debolezza caratteriale, malcelata dietro un forte cinismo. Quest’ultimo si presenta come un tipico personaggio sveviano, un inetto “incapace alla vita”, ritrovatosi per caso in una storia che non gli appartiene. Durante questo viaggio, infatti, verrà costantemente messa alla prova la sua psiche, come quella di tutti i personaggi, tramite incontri, domande, incertezze. Con un parallelismo che torna a Svevo, quindi, la consapevolezza del fallimento e l’inadeguatezza all’esistenza danno vita ad un’indagine sul sé che non si esaurisce neanche a narrazione conclusa.
Il confronto con la propria coscienza è decisivo, per i due uomini, durante un incidente di percorso: l’incontro/scontro con la realtà. La macchina del tassista urta qualcosa in strada, cala il silenzio sul palco: si tratta del primo schianto, un momento di interruzione del flusso narrativo. Un blackout realizzato tramite un fascio di luce che si riflette sullo specchio, in cui lo spettatore si rivede, presente e distorto. Appare qui, in un’ atmosfera surreale che ricorda intensamente un film di David Lynch, un personaggio col corpo di uomo e la testa di coniglio, a metà tra l’umano e l’animale, che non proferirà mai parola.
Se in una tradizione teatrale risalente al carnevale medioevale il meta-umano era simbolo dello degli istinti più violenti e brutali, qui invece l’ibrido si fa riflesso impassibile delle emozioni dei suoi compagni di viaggio. Quasi come uno spettro del futuro, l’uomo-coniglio rimane in silenzio di fronte alle sentenze di chi gli è vicino: è immagine della codardia di cui ogni uomo disincantato si macchia, arrendendosi ai propri sogni. Tale straniamento è stato reso possibile grazie alla maestria di Stefano Capra (disegno luci), Giuseppe Agostini (sound design), Maria Paola di Francesco (scene e costumi) e Noemi Radice (assistente alla regia), che hanno saputo immergere completamente lo spettatore in un’atmosfera onirica perfettamente riuscita.
Gli schianti sono molteplici e si susseguono per tutta la durata dello spettacolo, riuscendo a creare espedienti tali per cui vengono presentati in scena altri personaggi dalle caratteristiche bizzarre quanto affascinanti. Il primo è Robin, il famoso aiutante di Batman, un giovane ragazzo mascherato che cerca di ripulire il mondo dalle forze del male e che vuole emanciparsi dal suo storico compagno di avventure. Un sognatore che spera ed immagina un mondo nuovo, liberato da ogni cattiveria: l’unico personaggio aggrappato ad un’ideale per cui lottare.
L’ultima protagonista che viene presentata è una donna, la cantante di un pub notturno e squallido, impegnata a mascherare le sue insicurezze concedendosi agli uomini più improbabili. La sua voce, soave come seta, guida il pubblico negli angoli più bui del locale, concedendosi una lunga riflessione sulla propria inadeguatezza. Non si presenta mai, è la cantante senza nome, che con arroganza velata giudica gli spettatori: la ragazza del bar è l’ultimo dei personaggi in scena che chiude la serie di individui senza nome. Nessuno di loro si presenta mai in scena, rimangono tutti anonimi: la perdita dei loro ideali coincide così con la perdita dell’identità stessa. Robin è, per un primo momento, l’unica eccezione a questo schema. Anch’egli però, quando si perderà nella notte durante una delle sue missioni, verrà distratto dagli obblighi che la vita impone. Appare in scena a petto nudo, completamente spogliato non solo dei suoi abiti da super eroe, ma anche delle proprie convinzioni. Il tassista quindi rimarrà sempre un padre mancato innamorato di un figlio non suo, l’uomo cinico rimarrà il paziente terminale che s’accorge di temere la vita più di quanto tema la morte, la cantante del locale sarà sempre una donna insicura che ha bisogno di sentirsi amata. Robin, dunque, resta solamente un uomo, uno dei tanti.
In questo quadro dalle tinte sempre più sbiadite, chiara denuncia ad una società che non crede più a nulla e che si annienta nella propria routine, l’uomo-coniglio rimane ancora uno spettatore attento e silenzioso. È testimone di un climax discendente che rende l’uomo sempre più schiavo di se stesso, allo stato infimo dell’ignavo: un uomo che non corre dietro nessuna meta o icona, si limita unicamente a lamentarsi della propria condizione. Negli ultimi minuti che concludono lo spettacolo, rivolge lo sguardo verso il pubblico: l’espressione fissa è un chiaro punto di domanda. Un ultimo e decisivo schianto, che cerca di arrivare ad ogni persona presente e che assume la forma di molteplici domande senza risposta, utili a smuovere completamente gli equilibri emotivi del pubblico. La forza di questo spettacolo sta quindi sia nel grande lavoro che gli è alle spalle, ma anche nella grande forza della sua drammaturgia, così evidentemente frutto di un lavoro corale, che sviluppa questa forte invettiva in modi e sperimentalismi totalmente riusciti.
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