
“L’uomo del labirinto”: niente è come sembra
Un episodio di Sin city, ma a colori. Almeno così sembra essere, inizialmente, L’uomo del labirinto, ma con lo scorrere del tempo il film abbandona l’americanizzazione forzata e acquista una propria identità definita, anche se non convince mai del tutto. Dopo La ragazza nella nebbia, Donato Carrisi ritorna alla regia con, – esattamente come nella pellicola precedente -, una trasposizione di un proprio romanzo best seller. Ma cinema e letteratura sono tipologie di testi differenti, con differenti linguaggi.
Siamo in una realtà liminale, un mondo alla fine del mondo, dove niente è o può essere al massimo delle forze: i paesaggi o bruciano o sono tormentati dalle tempeste o immersi nella neve, gli interni sono chiusi, angusti, sotterranei, indefiniti e indefinibili e gli uomini in perenne sofferenza: sudano, arrancano, muoiono. Genko e il dr. Green indagano sugli eventi che hanno portato alla improvvisa ricomparsa di una ragazza sequestrata 15 anni prima. Ma non tutto è come sembra essere.
Se ne La ragazza nella nebbia la realtà era complessa ma possibile, L’uomo del labirinto si discosta volentieri e di frequente dalla fattibilità, dal realismo e tutte le scelte sembrano dirette a rimarcare e ricordare costantemente, agli sguardi degli spettatori, questa distanza: le scenografie sono volutamente forzate, estreme e scostanti, la regia ondivaga tra accelerazioni e rallentamenti e la macchina da presa non disdegna l’irruzione, muovendosi decisa e repentina diventando parte della scena, per poi tornare ad essere solo spettatrice degli eventi.
Le due indagini procedono parallelamente mantenendosi a distanza. Sono di natura completamente diversa, da un lato la ricerca è nella mente e nei ricordi, dall’altro ci si muove tra situazioni e persone; eppure si caricano entrambe di una tensione palpabile che, se nel secondo caso trova sfogo in eventi fisici e concreti, nel primo resta inesplosa. La ricerca condotta da Genko (un ottimo Servillo, di nuovo protagonista come nel film precedente) è coinvolgente e interessante, in particolare dalla seconda metà del film, meno riuscita le scene d’azione a cui sembra mancare sempre qualcosa per raggiungere la piena credibilità. Convince meno tutta la parte di dialogo tra Dustin Hoffman e Valentina Bellè, forse anche per il ridoppiaggio che toglie immediatezza.
L’intreccio tra i due filoni narrativi regge, nonostante alcune scelte non convincenti (anche banali: alcune scene avrebbero beneficiato di un silenzio in luogo di ingombranti musiche di sottofondo) a cui corrispondono però, a compensazione, anche scene degne di nota (Servillo riflesso nello schermo nero di un vecchio televisore a tubo catodico). Nella parte conclusiva del film i due piani paralleli si slegano e prendono a rincorrersi, ma qualcosa non funziona, perdendo il procedere in parallelo il ritmo si smonta: lo scioglimento dagli eventi diventa prevedibile ma al contempo confuso, chiaro eppure incerto.
Il secondo lavoro di Carrisi si dimostra meno convincente del precedente ma più ambizioso, con la scelta consapevole di prendersi rischi maggiori, il risultato è incerto ma comunque piacevole e coinvolgente, non riesce a raggiungere l’espressione completa del proprio potenziale ma dimostra di avere alcuni spunti interessanti.
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