
Ad Astra, Amleto nello spazio
«Oh no, un altro film ambientato nello spazio!» È questo che avranno pensato in molti di fronte all’uscita del fantascientifico Ad Astra, ennesima aggiunta ad un filone molto battuto negli ultimi anni. Eppure l‘ultima, elegantissima opera di James Gray sta lì a dimostrare che sì, un altro film ambientato nello spazio era necessario, questo film era necessario. Dopo l’esplorazione di un’Amazzonia piena di segreti in Civiltà perduta (2016), il 50enne regista di New York si cimenta con un altro viaggio in profondità, questa volta ai confini del sistema solare, anche se per i suoi personaggi l’obiettivo in fondo è sempre lo stesso: (ri)trovare se stessi. Con un budget di 80 milioni di dollari e una superstar come Brad Pitt nel ruolo di protagonista, Ad Astra, la cui uscita è stata più volte rimandata a causa dell’acquisizione della 21st Century Fox da parte della Disney, è infine approdato ai festival di Venezia e Toronto ottenendo un’accoglienza piuttosto tiepida da parte di critica e pubblico. Comprensibile: Ad Astra non è un capolavoro di tecnica come Gravity, non ha il senso di epica grandeur di Interstellar e non è un blockbuster cool come The Martian. Eppure, per certi versi, riassume tutti questi recenti film per dar vita ad un’opera complessa e solo apparentemente in tono minore, la quale – se si sta al gioco – sa sorprendere e appassionare, inserendosi alla perfezione in una filmografia raffinatissima come quella di Gray.
La premessa è relativamente semplice: in un futuro non molto lontano caratterizzato da <<speranza e conflitto>>, Brad Pitt è il maggiore Roy McBride, uno dei migliori astronauti sulla piazza, tanto da venire arruolato dal governo per una delicatissima missione top secret quando dei fortissimi picchi di energia minacciano l’intero sistema solare, Terra naturalmente compresa. Si sospetta che l’origine di questo fenomeno sia un misterioso campo elettrico sul pianeta Nettuno, sede in passato del Progetto Lima della NASA, basato sulla ricerca di forme di vita extraterrestre. L’operazione era coordinata da Clifford McBride (Tommy Lee Jones), padre di Roy e pioniere dei viaggi spaziali, il quale tuttavia fu dato per morto insieme al resto dell’equipaggio dopo che di tutti loro si persero improvvisamente le tracce. La verità potrebbe però essere un’altra, e spetterà a Roy tentare di capire se il padre è ancora vivo dopo sedici anni ed eventualmente se è lui che sta mettendo in pericolo la vita sulla Terra. Per Roy, astronauta celebre per la sua disciplina ferrea, razionalità e freddezza (il suo cuore, ci viene detto, non supera mai gli ottanta battiti al minuto), sarà dunque un’inaspettata occasione per fare i conti con una figura paterna che ha evidentemente condizionato tutta la sua esistenza e il cui ricordo gli suscita un mix di sentimenti contrastanti, non ultimo la rabbia per un abbandono improvviso mai del tutto metabolizzato. Come per il Neil Armstrong di First Man (ma Pitt è decisamente più bravo di Gosling), allora, per Roy il viaggio interstellare (a tappe: prima sulla Luna, poi su Marte, infine su Nettuno) è in realtà un viaggio nel proprio universo interiore, per trovare finalmente la propria identità e lasciar andare – metaforicamente e non solo, come il magnifico finale del film mostra – il fantasma di un padre ingombrante che lo ha accompagnato per tutta la vita.
È decisamente un film asimmetrico Ad Astra: ad una prima parte più avventurosa e con diversi momenti di genuina tensione (almeno tre memorabili: la caduta iniziale di Roy dall’Antenna Spaziale Internazionale; l’inseguimento con i pirati lunari; la scena simil-horror con una scimmia che fa rimpiangere i primati di 2001: Odissea nello spazio) corrisponde una seconda parte più introspettiva e lirica, quasi onirica, dove tutto il destino dell’umanità sembra ridursi ad un conflitto padre-figlio dai contorni freudiani che può essere risolto solo con un gesto liberatorio che porti a termine il processo catartico di elaborazione del lutto (un lutto dell’anima più che materiale), un distacco reale e fisico che solo in un secondo momento diventa simbolico (si veda, per tematiche analoghe, anche il dolcissimo rapporto madre-figlia in Arrival di Denis Villeneuve e quello padre-figlia nel recente High Life di Claire Denis, il più psicoanalitico tra gli ultimi sci-fi). Pitt, reduce dal successo del tarantiniano C’era una volta a…Hollywood, conferma il suo sorprendente stato di grazia, mentre Tommy Lee Jones, seppur con poco minutaggio a disposizione, riesce a rendere bene l’idea di personaggio perso nel buio delle sue stesse smisurate ambizioni, novello Kurtz nel cuore di tenebra del cosmo. Poco da segnalare sul resto del cast, puramente di contorno; colpisce solo il pochissimo spazio dedicato a Liv Tyler (appare poco e spesso addirittura fuori fuoco) nel ruolo della moglie di Roy, presenza anche questa spettrale e impalpabile, e non proprio in senso positivo. Dietro al dramma umano centro gravitazionale della storia si intravede però anche una certa creatività da parte di Gray nell’immaginare un futuro in cui turismo e colonialismo spaziale sono diventati la normalità (evidente ancora una volta il legame col precedente Civiltà perduta). Persino l’uso un po’ malickiano del voice-over di Pitt, per quanto forse un po’ demodé, non risulta stucchevole, anzi contribuisce a farci immergere nel punto di vista di un uomo addestrato a ignorare ogni tipo di distrazione e a concentrarsi solo sull’essenziale, salvo infine scoprire che l’essenziale non è quello che ha sempre creduto. E quest’opera di Gray, con le riflessioni che solleva, è proprio un altro esempio di quella fantascienza profonda e intimista che per noi è ancora – appunto – essenziale.
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