
Warrior – Il nuovo western all’orientale per gli amanti di Bruce Lee
Intrighi politici, tensioni sociali, conflitti tra tong, poliziotti corrotti e… scazzottate alla Bruce Lee: questi sono gli ingredienti di Warrior, la serie in costume ispirata ai diari della star sino-americana e prodotta dalla figlia Shannon Lee, in collaborazione con Jonathan Tropper e Justin Lin. Laureato in filosofia ed esteta del Kung fu, il regista di L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente si reincarna in Ah Sahm (interpretato da Andrew Koji), un giovane del Foshan che sbarca nella turbolenta San Francisco del 1878. Insieme a lui, veniamo catapultati in una China Town sconvolta dalla crisi economica e dalla mafia cinese, da tempo impegnata nel traffico d’oppio: una realtà in cui la rissa non è capriccio né rozzezza, ma un raffinato mezzo di sopravvivenza e di coercizione.

Come ci potremmo aspettare, Ah Sahm mostra fin da subito un’ottima padronanza delle arti marziali: a poche ore dall’arrivo, viene arruolato nella Hop Wei, una delle tong che governano China Town. Mestiere: sicario. Troppo sicuro di sé e delle proprie doti di combattente, il protagonista si muove ingenuamente nell’universo della criminalità organizzata, dove la legge è scritta col sangue delle ritorsioni e la giustizia è un’opinione del più forte.

Come se non bastasse, San Francisco affonda sempre di più nei conflitti razziali, fomentati soprattutto dai coloni irlandesi, che non mancano di ricorrere alla violenza e al sopruso: sommersa dall’ondata orientale, la parte bianca e anglofona incolpa i cinesi della crisi economica, accusandoli di monopolizzare il lavoro e di incoraggiare l’illegalità. “Malattie esotiche dall’oriente… la violenza delle gang cinesi si diffonde nei quartieri bianchi… zone piene di Americani disoccupati… Può sembrare un fenomeno locale, ma se la situazione ci sfugge di mano, il pericolo giallo si diffonderà in tutto il Paese come la peste”. Di lì a poco, nel 1882, il congresso degli Stati Uniti promulgherà il Chinese Exclusion Act, privando la comunità cinese del diritto di cittadinanza. Una situazione per niente idilliaca. Dunque, per quale motivo Ah Sahm si è recato nel nuovo continente? Lavoro? Denaro facile? Niente del genere. Il giovane è in cerca della misteriosa Xiao Jing, fuggita negli Stati Uniti due anni prima.

Da queste premesse prende avvio una trama densa e ricca di personaggi, che si muovono in un’atmosfera a metà tra noir e western urbano, con un certo compiacimento per lo splatter, il sesso esplicito e la crudezza sia visiva che espressiva (a volte funzionali alla trama e alla caratterizzazione, a volte emuli delle tendenze del momento). Inquadrature soggettive e false soggettive, prospettive dall’alto, dal basso e di scorcio, primi piani, primissimi piani e qualche ripresa a mano libera ci proiettano in prima persona sulle strade polverose di China Town, tra i saloon, le luci soffuse dei bordelli e le stanze lussuose degli arricchiti.

Si tratta di un mondo sostanzialmente antieroico (con l’eccezione del protagonista e di pochi altri), per il quale si fornisce una chiave di lettura “anti-manicheista” e improntata su un vago relativismo morale. Tuttavia, nel tentativo di dar voce alle ragioni dei criminali cinesi e di valorizzare le arti marziali, si scivola spesso in una rappresentazione irrealistica delle tong, composte da guerrieri quasi invincibili e pressoché immuni a qualunque offensiva dei bianchi rivali. Nondimeno, le scene di combattimento sono certamente apprezzabili ed entusiasmanti per i nostalgici di Bruce Lee, le cui movenze vengono riprodotte nel personaggio di Ah Sahm.

Discutibile la scelta dell’alternanza linguistica per facilitare la fruizione: interi dialoghi tra cinesi si svolgono inverosimilmente in inglese, per non parlare dei bruschi cambiamenti d’idioma nel corso di un’unica frase, finalizzati a rendere nota la lingua della conversazione e allo stesso tempo evitare la pesantezza dei sottotitoli. Un vero peccato, dato che il giovane protagonista si distingue dagli altri immigrati proprio per la conoscenza della lingua inglese (insegnatagli dal nonno), un preziosissimo mezzo di integrazione che gli permetterà di acquisire spessore umano agli occhi dei coloni di origine europea, nonché di socializzare con alcuni di loro. Quasi nessuno degli abitanti di China Town conosce la lingua ufficiale degli Stati Uniti: dal momento che la differenza linguistica è tra le principali cause di emarginazione e di ghettizzazione della comunità cinese, sarebbe stato opportuno sottolineare questo divario e, di conseguenza, il ruolo di Ah Sahm come mediatore tra culture.

Se tralasciamo quest’ultima pecca e le storie d’amore straboccanti di cliché, Warrior é una serie che intrattiene e intriga al punto giusto, ricca di potenzialità quando non scade nella banalità di una certa tendenza mainstream.

(Warrior ha debuttato in Italia lo scorso 15 luglio: le puntate sono trasmesse dal canale Sky Atlantic )
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