
Green Book: razzismo senza banalità
Le sfide che Green Book (P. Farrelly, 2018) porta con sé nelle sale italiane sono molteplici. Prima di tutto, l’emancipazione artistica del regista Peter Farrelly, solitamente in coppia col fratello minore Bobby, con lui autore di commedie memorabilmente scorrette come Scemo & più scemo (1994) e Tutti pazzi per Mary (1998). In secondo luogo, la conferma della nuova impennata di Viggo Mortensen, dopo la brillante prova in Captain Fantastic (M. Ross, 2016). Infine, il ritorno del tema del razzismo, forse troppo spesso abusato. Di questi tempi, forse, è bene che non lo si metta da parte e si esplori con rinnovata furbizia, come già ha fatto Spike Lee in questo stesso anno. Ma ci arriveremo.
Green Book è una pellicola classica, ordinata, tecnicamente rispettosa dei dettami hollywoodiani, che vanta soprattutto un ottimo montaggio. Il quadro non abbandona mai i protagonisti, sempre a fuoco, e la narrazione scorre con un ritmo leggerissimo, talvolta riuscendo a stupire nonostante i numerosi cliché su cui il film non si vergogna di poggiare, a cominciare da una rappresentazione vagamente mitizzata degli anni sessanta. Sempre parlando di cliché: si tratta di un classico road-movie, quindi una narrazione che, seguendo la strada – cioè affrontando una direzione (nell’idea del viaggio) –, si occupa della messa in discussione delle posizioni dei protagonisti. In questo caso, la storia è tratta da una vicenda realmente accaduta, ovvero il tour nel profondo sud degli Stati Uniti del virtuoso pianista di colore Don Shirley (Mahershala Ali), sempre accompagnato dal bizzarro autista-maggiordomo Tony “Lip” Vallelonga (Viggo Mortensen), il cui figlio è fra gli autori della sceneggiatura. La coppia farà affidamento a una nota guida per viaggiatori di colore che indica gli alberghi in cui la pelle nera non è osteggiata: il Negro Motorist Green Book.
Tony, italoamericano volgare e irascibile, è orgoglioso della sua cultura e cerca di trasmettere questo sentimento al compagno; Don, invece, risponde con sdegno, prendendo le distanze dalle aspettative stereotipiche che il colore della pelle porta con sé. Quest’ultimo lotta per ottenere il massimo livello di dignità che la società gli concede, reagendo ai soprusi senza mai scomporsi, facendo della sua elevata istruzione uno strumento contro il razzismo. A ben vedere, questo incrocio è insolito per film di questo tipo. Don non ha solo poche conoscenze della “cultura nera” che gli è arbitrariamente imposta socialmente ma, anzi, ha abbracciato la cultura elitaria dal sapore europeo dei salotti intellettuali e della musica classica.
Viggo Mortensen, nei panni di Tony, ci regala una delle sue migliori prove in carriera. Sempre intenso, con precisi tempi comici, stupisce soprattutto nelle tante sequenze in cui parla un discreto italiano. Si consiglia, a tal proposito, la visione in lingua originale, per apprezzare appieno l’accento di Mortensen e le tante battute nella nostra lingua che rendono ancora più caratteristico il personaggio. Come il personaggio di Tony, l’interpretazione di Don Shirley è una nuova conferma delle doti di Mahershala Ali. Non soltanto un musicista di elevatissimo genio, ma anche un uomo colto e istruito, raffinato ed educato, il pianista è il vettore essenziale del messaggio che il film intende trasmettere: la dignità è ciò su cui la società deve basare l’integrazione, offrendo a chi è percepito come “diverso” la possibilità di dimostrare il suo valore, al di là del pregiudizio. Un principio che la pellicola di Peter Farrelly intende veicolare negli Stati Uniti, ma valido anche nella vecchia Europa, pur sfruttando eventi accaduti quasi sessant’anni fa. Sono questi principi a portare Shirley in un tour proprio nel sud, con la forza di un atto artistico militante, segno di una rivoluzione che non si ferma in un lussuoso appartamento newyorkese, ma viene condotta fin là dove è più distante.
A sottolineare il forte desiderio di emancipazione del pianista è anche la sua musica. Don Shirley è stato infatti uno storico interprete del chamber jazz, uno stile di jazz influenzato dalla neoclassica. Don è quindi esponente di uno stile di derivazione afroamericana che guarda alla musica classica, europea (e bianca) per antonomasia. Come racconterà lui stesso, questa scelta raffinata è dettata dal fatto che i suoi studi sono prevalentemente classici, come pure i suoi amori musicali, ma nessuno darebbe credito a un “negro” che suona Chopin. A tal proposito, la colonna sonora è fra i punti di forza di questo film, con brani originali di Shirley, come la versione di Lullaby of Birdland, e componimenti classici come il Vento d’Inverno di Chopin, quest’ultimo al centro di una delle scene più emozionanti del film.
Come si può immaginare, Green Book è quindi a pieno diritto un prodotto che pretenderà una corposa passerella agli Oscar. Forse il merito è per lo più attribuibile al tema affrontato, tenendo conto della “sensibilità” dell’Academy rispetto a questi argomenti. Ma, al di là della possibile strumentalizzazione politica, il film di Farrelly è una piacevole sorpresa, divertente e profonda, in grado di intrattenere senza svendersi a una morale troppo facile e scontata.
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