
Siamo Titani, non eroi… e abbiamo qualche problema
La serie Titans arriva con undici episodi su Netflix. Un gioco che, a suo modo, lascia un segno: una scelta lontana dalla narrazione classica, continuamente ricercata e ricreata, già nel primo numero di quel filone emerso negli anni Sessanta: i Teen Titans, il cui nome risuonava finora solo in alcuni cartoni animati.
Quasi sempre analizzare DC significa trovarsi di fronte alla solita squadriglia di problemi: solitudine, che produce depressione, che a sua volta può condurre a rabbia e odio fino allo scacco finale, in cui il lettore-spettatore può trovarsi volutamente catapultato dalla parte del villain.
I protagonisti appartengono alla categoria dei gregari, eterni aiutanti “spolverini” del supereroe di turno. In tal senso, parve scontato agli autori del fumetto inserire quale canone di riferimento il giovane Robin, la spalla di un eterno Batman in lotta per Gotham.
In una sorta di privilegio non richiesto questo aiutante, da perfetto discepolo, aveva la possibilità di apprendere da un mentore di una certa rilevanza. La stretta collaborazione non aveva mai richiesto e approfondito il personaggio di Robin, che tendeva ad essere semplicemente un potenziale “doppio” del Cavaliere Oscuro, in una corrispondenza di intenti puramente unidirezionale. Un rapporto di tacita sudditanza.
E in effetti, chi è Robin? Qualche mese fa Cesare Cremonini cantava “Nessuno vuole essere Robin”, il cui testo non è utile per il nostro scopo, se non nelle parole «Ti sei accorta anche tu, che in questo mondo di eroi, nessuno vuole essere Robin?» Parole che permettono di sperimentare la dura condizione del “mediano”: nato nel 1940, la spalla di Batman serviva unicamente a ridurre la carica di violenza di Bruce Wayne; in parole povere, il miliardario mascherato avrebbe continuato ad uccidere mezza città se non fosse intervenuto il suo aiutante ad assicurare alcuni criminali alla giustizia.
E ora nella serie Netflix tutto è capovolto. La narrazione voluta da Akiva Goldsman (Oscar alla migliore sceneggiatura 2002 per A Beautiful Mind), Geoff Johns e Greg Berlanti vede un intreccio dettato dai vari drammi personali dei protagonisti, che tenderanno a convergere in maniera organica solo a partire da metà stagione. Nei primi episodi tutta l’attenzione dello spettatore è attirata dalle varie caratteristiche dei personaggi intervenuti, anche se la loro presentazione tende a formare dei possibili raggruppamenti interpretativi.
Robin è Dick Grayson, il primo “sidewick” di Gotham, totalmente in rotta con Bruce Wayne per via del suo progressivo inasprimento nei metodi di repressione del crimine. Al rifiuto del mentore segue il volontario esilio verso Detroit, in cui essere solo un detective scontroso. Rinnegare il passato è difficile, soprattutto se la violenza dello scontro diviene semplice pretesto per affermare la propria volontà. Ben presto, Robin inizia ad aggirarsi per le strade notturne di Detroit con l’esplicita ricerca di uno scontro fisico, dettato più che da un senso di giustizia da una sempre più invadente necessità di far soffrire i colpevoli. E tuttavia, in questa ottica il confine fra eroe e antieroe tende ad estinguersi. Il gusto per il sangue fa spesso sorridere Dick: alla ricerca di emancipazione, dettata da un’etica differente rispetto a quella del guardiano di Gotham, egli cambia semplicemente palcoscenico d’azione: l’irrealistica Gotham lascia spazio alla concreta Detroit.
Interessante visione che permette di definire il tema degli episodi della serie: i Titani non sono migliori dei “comuni”; il presunto eroe, qualora dotato di abilità sovrannaturali, obbedisce alle naturali psicosi moderne. E magari essere banalmente persone normali: tante volte questa ricerca viene avviata e poi fallisce per il richiamo costante del passato.
Solitudine, rabbia, ricerca di attenzione, gusto per il macabro. I personaggi principali vivono una condizione di forte spaesamento e il dissidio interiore li divora: se Robin diviene la chiave di lettura della narrazione, questa viene sospinta verso nuovi lidi dalla comparsa di Rachel Roth, alias nel fumetto di Raven. Non è una scelta da poco: la ragazzina vive un profondo trauma, dettato da un’eterna lotta interiore con una forza oscura, in grado di sospingere la serie, soprattutto nei primi episodi, verso i canoni del genere horror. E insieme diviene presto l’oggetto di desiderio di parti non precisate, interessate a sfruttarne il potere. Profezie cristiane e non tentano di investigarne le potenzialità: la furia interiore si manifesta in rare occasioni e non sempre gli effetti rispondono alle previsioni.
Eterna fuga non solo fisica ma interiore; una fuga dettata da continue sollecitazioni esterne. Anche i personaggi secondari hanno questa caratterizzazione: traumi infantili da riassorbire, relazioni da salvare e memorie da conservare.Fra questi possiamo ricordare automi e una strana donna afroamericana con i capelli rossicci e abiti violacei molto appariscenti: è una donna alla ricerca di sé stessa e della sua memoria. Priva di identità ha un solo tassello che la tiene ancorata alla realtà: Rachel stessa. La ragazzina è la sua chiave interpretativa e per questo va protetta. Compare anche quello che verrà definito “Beast Boy”: un ragazzo nerd, in grado di trasformarsi in tigre dopo essere stato salvato da un medico dal profilo non convenzionale. Il suo personaggio porta in scena l’innocenza ancora tipica della prima giovinezza e la pura gentilezza del dono. La sua ricerca di libertà doveva essere ulteriormente indagata dal momento che spesso la narrazione riprende e prosegue grazie alla sua persona.
Son tutte figure solitarie: orfani, smemorati, rinnegati si muovono e cercano di collaborare -in atmosfere degne della prima Gotham di Nolan- al fine di trovare e di trovarsi nel caos comune. Rachel, in particolare, va alla ricerca delle origini del suo male. E però il male è ovunque: in sette bizzarre, case isolate, treni.
Ricercano semplicemente un ritorno sicuro verso casa: Dick ha necessità di lasciarsi Robin e Batman alle spalle, ma continua ad indossare il vecchio costume e Rachel teme il suo potere eppure spesso lo invoca.
La tematica non banale, anche se ripetitiva, tende una mano generosa verso quella fetta di pubblico un po’ attempata, non interessata molto a questo genere. Una sfida vinta? In parte: il ritmo spesso è troppo lento per il filone di appartenenza, quasi riflessivo. Lo scavo interiore, finora solo presente a tratti nell’opera di Nolan, qui diviene spesso il cardine delle puntate. Non è scelta errata, anzi.
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