
Poker è uno spettacolo “di prospettiva”
Non capita spesso che un testo britannico degli anni Novanta – fortemente legato alla realtà in cui è stato concepito – sopravviva brillantemente a tre diversi allestimenti italiani (realizzati a partire dal 2007, sempre in collaborazione con il Teatro Nazionale di Genova) arrivando a più di vent’anni di distanza dalla sua realizzazione ancora capace di catturare il pubblico. Eppure Poker (Dealer’s Choice, 1995) di Patrick Marber riesce benissimo in questa impresa, merito dell’ultimo allestimento curato da Antonio Zavatteri che dirige una compagnia di attori affiatati tutti formati dalla Scuola del Teatro Nazionale di Genova.
Carlo Sciaccaluga cura la versione italiana del testo di Marber drammaturgo e regista del National Theatre, sceneggiatore di Closer e Diario di uno scandalo (Notes on a scandal) per cui fu candidato agli Oscar nel 2006. La traduzione di Sciaccaluga riesce bene a rendere la lingua tagliente e asciutta del celebre autore britannico e cattura il pubblico con dialoghi vivaci portati in scena dagli interpreti con ritmi perfetti.
Poker racconta la storia di un gruppo di personaggi legati, in maniera diversa, a un modesto ristorante londinese e animati da un’unica passione comune: la partita di poker che viene giocata tutte le settimane durante la notte di domenica, approfittando del successivo giorno di chiusura. Prima che il gioco abbia inizio però, abbiamo modo di conoscere i giocatori e scoprire così che ciascuno di loro nutre sogni di riscatto che proietta nella partita. Debiti, scommesse, ore di straordinario, detrazioni dallo stipendio, ambite vacanze: tutto ruota intorno al tavolo da poker e i giocatori non vedono l’ora di mettersi alla prova, nella speranza di una grossa vincita che cambi la loro vita.
Ad orchestrare il tutto è il proprietario del locale, il “marmoreo” Stephen (un eccellente Federico Vanni che garantisce credibilità a tutto lo spettacolo) la cui “dittatura” però dovrebbe terminare con la chiusura del ristornate e l’inizio del gioco. Per Stephen la partita domenicale è soprattutto l’unica occasione per vedere il figlio Carl sfuggente e noncurante (interpretato dal giovane Daniele Maddeddu), eppure legato al gioco più di tutti. Accanto a lui il cuoco Sweeney (Alberto Giusta) alle prese con una difficile situazione familiare e i due camerieri: lo spavaldo donnaiolo Frankie (Fabio Fiori) e l’impacciatissimo Pollo (un Enzo Paci calzatissimo in questo ruolo tragicomico). Eccezionalmente una sera si aggiunge alla partita Ash (Massimo Brizi) un ambiguo cliente del ristornate introdotto dal giovane Carl.
Un’umanità varia, animata dal comune desiderio di cambiare, si confronta così sul tavolo verde mettendo in gioco le proprie speranze e dimostrando che “ognuno sta dalla sua parte” e non c’è modo di salvarsi da sé stessi. “Il poker è un gioco di sacrificio dove non si migliora se non si soffre” viene detto, eppure tutti i personaggi, in fin dei conti, si misurano con la delusione della sconfitta , in un gioco senza esclusione di colpi e che non risparmia battute amare. Assai più difficile sembra piuttosto il confronto con la vita vera, al di fuori dello scantinato in cui si svolge la partita: la mancata vincita diventa così un alibi per rimandare i sogni di cambiamento “alla prossima settimana”.
La dissacrante comicità di Poker diverte – nonostante l’amarezza di fondo – e tutti gli interpreti rivelano la propria abilità nel gestire i fitti dialoghi, catturando (e facendo ridere) il pubblico anche grazie alle scenografie di Laura Benzi che permettono un continuo andirivieni che movimenta la scena. Poker si rivela dunque uno spettacolo “di prospettiva” ancora attuale perché chiede di metterci in gioco noncuranti del rischio e dell’imprevisto e fare i conti con la realtà. E, in fondo, la scelta della drammaturgia contemporanea rappresenta spesso un’incognita: la speranza è sempre quella che il teatro trovi uno spazio più ampio da dedicarle.
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